Stefano Feltri, il Fatto Quotidiano 25/4/2012, 25 aprile 2012
CHE NOIA, IL CRAC
Un trader siede davanti allo schermo, inarca le sopracciglia, parte la musica a evocare tensione, scattano i primi “Jesus” e “Fuck”, gergo tecnico che sembra imprescindibile nel racconto della grande finanza. Lo scenario è sempre lo stesso, Wall Street, settembre 2008, il crollo di Lehman Brothers. Molto di più il cinema non sembra in grado di fare per raccontare la grande crisi.
Margin Call è un film che 01 distribution (Rai Cinema) distribuirà in Italia dal 18 maggio, diretto da J.C. Handor, in concorso al Festival di Berlino. La trama: un giovane trader (Zachary Quinto) completa le analisi del suo capo appena licenziato (Stanley Tucci) e scopre che la grande banca in cui lavorano è esposta a rischi eccessivi e si profila il crac da un momento all’altro. Si susseguono riunioni con capi più o meno inetti fino all’arrivo di Jeremy Irons, l’amministratore delegato John Tuld (chiara allusione a Richard Fuld di Lehman Brothers, chiamato “il Gorilla”). Decidono di scaricare tutti i rischi sui clienti per ridurre l’esposizione della banca. Il cast è di livello, ci sono anche Demi Moore e Paul Bettany. In Margin Call, titolo criptico che allude a una tipica operazione speculativa, c’è il potenziale narrativo della crisi – che dai tempi di Wall Street di Oliver Sto-ne, nel 1987 – ha il suo fascino. Ma ci sono anche tutti i limiti: lo spettatore medio non coglie neppure i rimandi a Lehman, quello scafato si stupisce che tutti i capi sembrino analfabeti finanziari che chiedono ai sotto-posti di spiegare in parole semplici cosa sta succedendo, a esclusivo beneficio dello spettatore ma a scapito della credibilità. Sembra che i film non riescano mai a superare il personaggio di Gordon Gekko (Michael Douglas), lo speculatore di Stone che teorizzava “greed is good” (l’avidità è bene). Lo stesso Stone ha tentato, con risultati non indimenticabili, di riportarlo in vita con il sequel Wall Street 2 del 2011. Anche in quel film la crisi viene riassunta negli eccessi americani del 2007-2008, i “masters of the universe” che, come nel Falò delle vanità di Tom Wolfe, precipitano, trascinandosi però dietro il resto dell’economia. In Margin Call c’è almeno un accenno al fatto che, quattro anni dopo il crac di Lehman, abbiamo capito che i banchieri sono stati una parte (grossa) del problema, ma c’è anche altro. Uno dei banker spiega una sgradevole verità: “Ci sono persone là fuori a cui va bene così, se noi togliamo la mano non potranno più abitare in case che non possono permettersi e guidare auto comprate a rate”.
NEL 2011 il regista Curtis Hanson ha trasformato in un film la grande inchiesta di Andrew Ross-Sorkin, il giovane ma famosissimo reporter del New York Times, che ha ricostruito i retroscena dell’esplosione della finanza nell’estate 2008. Se Margin Call evoca, suggerisce, sintetizza, Too Big To Fail voleva essere la cronaca, ora per ora, delle fasi più critiche della storia di Wall Street. Ma anche quell’esperimento non è riuscito: per il grande pubblico era impossibile riconoscere i protagonisti e cogliere le sfumature, il personaggio principale, l’ex segretario al Tesoro Henry Paulson, ne usciva come un servitore dello Stato che aveva fatto il possibile, i suoi conflitti palesi con Goldman Sachs, che aveva diretto per anni, soltanto accennati. L’unico che ha raccontato la crisi (americana) nella sua complessità è Charles Ferguson, con il documentario Inside Job, che ha giustamente vinto l’Oscar: dopo numerosi tentativi, sembra ormai evidente che soltanto l’inchiesta giornalistica riesce ad affrontare i diversi aspetti del disastro in cui siamo immersi, evidentemente troppo complesso e troppo poco umano per la fiction. Il cinema ha i suoi limiti, serve pure sempre un protagonista, una trama, un equilibrio da rompere e ricomporre, un’unità di spazio e tempo. Un inizio e una fine. Ma quest’utlima, nel mondo reale, nessuno riesce a intravederla. Kevin Spacey in Margin Call funziona, il suo ruolo di trader vecchio stile, cinico ma non troppo, è perfino plausibile. Eppure lo spettatore non può emozionarsi più di tanto vedendo un tizio che fissa uno schermo e impallidisce, senza poter capire cosa c’è dietro i numeri e grafici di Bloomberg.
Non è che la letteratura se la cavi poi tanto meglio con questa crisi. Robert Harris ha trovato un’allegoria così palese da sfiorare la banalità, con L’indice della paura (Mondadori): un algoritmo per speculare perfetto che prende vita e uccide i suoi creatori. Nel 2010 Adam Hasslet ha colto bene lo spirito dei tempi con Union Atlantic (Einaudi), romanzo che riassume però soltanto la vigilia del tracollo, raccontando l’intreccio tra banche e bolla immobiliare. Forse il romanzo finanziario migliore resta Questa città che sanguina (Eliot) di Alex Preston, proprio perché è l’opposto di Inside Job: non il racconto della big picture del quadro di insieme, ma un dramma individuale, senza pretese di completezza: la caduta di un giovane inglese che aveva rinunciato a un dottorato su Shakespeare per i soldi facili della City. E che finisce per dimenticare il figlio in auto troppo preso dal fallimento imminente della società finanziaria in cui lavora. Lo ritroverà arrostito dalla calura estiva nel parcheggio.