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 2012  aprile 24 Martedì calendario

Sporco, brutto e creativo Urs Fischer, l’(anti)star che rinnova l’idea di arte - È lui, in ordine di tem­po, l’ultimo fenome­no dell’arte contem­poranea, altrimenti mai lo scal­tro magnate collezionista Franço­is Pinault gli avrebbe concesso due piani di Palazzo Grassi per una personale

Sporco, brutto e creativo Urs Fischer, l’(anti)star che rinnova l’idea di arte - È lui, in ordine di tem­po, l’ultimo fenome­no dell’arte contem­poranea, altrimenti mai lo scal­tro magnate collezionista Franço­is Pinault gli avrebbe concesso due piani di Palazzo Grassi per una personale. Urs Fischer è uno svizzero quarantenne ciccione, una specie di biker tutto tatuato che ricorda John Belushi, mal ve­stito e capitato lì per caso. Non è dotato di alcun talento, eppure ci prova a pasticciare con le mani creta, metalli, colori e gessi. I suoi lavori possono risultare, a secon­da di come li si approccia, davve­ro irritanti perché riassumono tutto il cialtronismo dell’arte con­temporanea, oppure geniali pre­se in giro della seriosità ideologi­ca che ci ha ammorbato nell’ulti­mo mezzo secolo, minimalismo e Arte Povera in particolare. L’anno scorso Fischer aveva in­cantato la Biennale di Venezia, esponendo forse l’opera più bel­la dell’intera selezione, la copia in cera del tardo cinquecentesco Ratto delle Sabine del Giambolo­gna, accesa il giorno dell’inaugu­razione e destinata a sciogliersi giorno per giorno fino al comple­to disfacimento. Una riflessione piuttosto esplicita sul tempo nel­­l’opera d’arte, che oggi non è de­stinata a durare per sempre come in altre epoche si credeva, per cui anche la funzione del museo vie­ne rimessa in discussione e forse in futuro non ci sarà davvero più molto da conservare. A Palazzo Grassi, Fischer ritor­na sul tema a lui caro, con una coppia di ritratti di cera (il suo e quello dell’amico artista Rudol­ph Stingel), maxi candele sedute attorno a un tavolo come I gioca­tori di carte di Cezanne. Ma appe­na si esagera con romanticismo e seriosità, ecco che lo svizzero ci sorprende con una serie di lavori volutamente sciatti e insignifi­canti, messi apposta a provocare i residui cultori della bellezza. Ad esempio ecco tre neon che rievocano la purezza di Donald Judd, solo che al posto della luce ci sono un cetriolo, una salsiccia, una carota (questa è caduta e non è neppure sta­ta sostituita). Certo qualcu­no potrebbe scandalizzarsi perché qual­cun altro è di­sposto a paga­re diverse deci­ne di migliaia di euro per un pez­zo di verdura (che dire allora di lampadine identiche a quelle messe in commer­cio?): impossibile non tirar fuori la solita teoria del contesto, dove è il luogo che dà valore all’ogget­to, e dunque se invece che a Palaz­zo Grassi queste sculture fossero state esposte alla Biennale di Roc­cacannuccia (o invece che alla Gavin Brown Gallery di New York in un circolo ricreativo in provin­cia) non varrebbero il becco di un quattrino. Ma la scusa non regge più e la teoria suona vecchia. La verità è che Urs Fischer sta all’arte degli anni Settanta (mi­nimalisti, poveristi e l’insop­portabile Marina Abramovic) come Ultimo tango a Zagaro­lo sta a Ultimo tango a Parigi , e siamo incerti se faccia più ri­dere il faccione esistenziali­sta di Marlon Brando o quel­lo demente di Franco Fran­chi, un buco di culo dello svizzero o la regina delle performance che or­mai sembra Mamma Ebe. In Fischer l’arte è parodia e cla­morosa presa per i fondelli di chi proprio non si capacita del pro­prio successo visto che non sa fa­re assolutamente nulla. Gli piace sporcarsi le mani con la scultura ma non riesce a finirne neanche una e quindi si limita a esporre le prove dei suoi fallimenti. A ripro­va della sua inadeguatezza tra­sporta a Venezia un facsimile del suo studio londinese, sporco e zeppo di cartacce e rifiuti, volen­do ric­reare il clima del luogo di la­voro di un soggetto disorganizza­to, lontanissimo dalle factory e da­gli uffici delle superstar collezio­nate dallo stesso Pinault (Mu­rakami e Koons soprattutto). Al piano di sopra l’atelier si ani­ma della presenza di una giovane modella che posa nuda per il pub­blic­o accontentando il nostro de­siderio voyeuristico. Altro lavoro significativo è Nach Jugenstiel Kam Roccoko (non è stato tra­dotto e dun­que non so che significhi): una complica­ta puleggia, che sembra ru­ba­ta a una scul­tura di Rebec­ca Horn, trasci­na per la stan­za un pacchet­to di sigarette accartocciato. Ovvero, la montagna ha partorito il topoli­no. Madame Fisscher , questo il tito­lo della mostra, si presta dunque a svariate letture ma certo non la­scia indifferenti e vale la pena di una visita perché evidenzia sen­za mezzi termini che l’artista oggi ha perso persino il paracadute delle ideologie e rivela tutta la sua incapacità, nonostante le istru­zioni riportate sulla guida in puro linguaggio critichese. Urs Fischer è pigro, molle, de­menziale, l’esatto opposto del­l’artista charmant di nero vestito. Non ha niente da dire oltre a ciò che si vede e che il più delle volte è brutto. Però il suo atteggiamento gaglioffo fa invecchiare di colpo l’arte post-sessantottina. Dio (o chi per esso) gliene ren­da merito.