Stefano Lorenzetto, Panorama, n.19, 2 maggio 2012, 2 maggio 2012
Panorama, n.19, 2 maggio 2012 Arrivato all’età di 55 anni, 8 mesi, 3 settimane e 3 giorni, ho appreso che il mio Dna non è programmato per farmi morire di tumore
Panorama, n.19, 2 maggio 2012 Arrivato all’età di 55 anni, 8 mesi, 3 settimane e 3 giorni, ho appreso che il mio Dna non è programmato per farmi morire di tumore. Riguardando il retropensiero di tutti noi provvisoriamente viventi, un dubbio che ha accompagnato almeno 6.574 dei miei 20.356 giorni (diciamo dalla maggiore età a oggi, più di un terzo della vita), è una gran bella notizia, devo convenirne. Al pari di quest’altra: pare che sia immune dall’Alzheimer e da altre patologie neurodegenerative, il che potrebbe però tradursi in una iattura per i lettori di Panorama, costretti a sopportarmi ancora per qualche anno. Poiché il verdetto mi è giunto nella settimana di Passione, non potevano essere tutte rose e fiori. Ecco le spine: è in agguato il diabete del tipo 1 e, giusto per non farmi mancare nulla, anche del tipo 2; sono esposto alle malattie autoimmuni, in modo particolare all’artrite reumatoide; si prospetta una degenerazione della macula lutea retinica, che potrebbe condurmi alla perdita della visione centrale, e va’ a capire cosa te ne fai, in casi del genere, di quella periferica; qualora dovessi, contro ogni logica previsionale, beccarmi un tumore alla prostata, sussistono 25 possibilità su 100 che abbia esito infausto. Infine, sono destinato a restare calvo. Dimenticavo: in caso di necessità, non potrò far uso né delle statine per abbassare il colesterolo né del citrato di sildenafil per alzare qualcos’altro. Pericolose le prime. Inefficace il secondo, commercialmente noto come Viagra. Accontentarsi del solito Brioschi e via andare. Come sono venuto a sapere tutto questo? Allora. Ero in auto, diretto a Padova per intervistare, manco a dirlo, un medico, Giovannella Baggio, che ha avuto fra i suoi pazienti il pastore Antonio Todde, abitante a Tiana (Nuoro), entrato nel Guinness dei primati come l’uomo più vecchio del mondo, essendo morto nel 2002 pochi giorni prima di compiere 113 anni. Mi telefona il caporedattore della scienza: «Volevamo far sottoporre un giornalista di Panorama al sequenziamento del genoma, a New York, in un istituto partner dell’ospedale San Raffaele. Sei la penna giusta per scrivere un pezzo del genere». L’eccesso di considerazione suona sospetto. Pare mi siano stati fatali un paio di libri che ho pubblicato con Marsilio su vita e morte, su medici e malattie: «Si ringrazia per le amorevoli cure prestate mi è piaciuto molto». Fregatura assicurata. Obietto: ma perché non vai tu? «Non me la sento». Ah, ecco. Nessun inviato o redattore di Panorama vuole conoscere in anticipo la data, sia pure presunta, del suo decesso, corredata per di più dalle cause che lo determineranno. Comprensibile e molto umano. Infatti declino anch’io con una scusa inappuntabile: il mio inglese non è all’altezza, me la cavo a malapena con la lingua degli avi. Due ore dopo, sul display del telefonino lampeggia un sms: «Il centro non è negli Stati Uniti, è a Milano! Quindi puoi parlare in dialetto veneto, se ti garba». Incastrato. Ed eccomi qua, nel Centro di genomica e bioinformatica traslazionale del San Raffaele, davanti al sinedrio chiamato Unità di funzione del genoma. Lo presiede Elia Stupka. Lo compongono Federica Esposito, Davide Cittaro, Michela Riba, Stefania Merella, Vincenza Maselli, Silvia Bonfiglio, Andrea Calabria, Iwan Buetti, Santosh Anand, Dejan Lazarevic, Celia Pardini. Un gruppo polispecialistico e multidisciplinare: biologi, genetisti, medici, matematici, ingegneri, biotecnologi, bioinformatici. E multietnico: gli ultimi tre vengono da India, Croazia e Argentina. Entrano uno alla volta nella stanza attrezzata di schermo: meglio proiettarla, la sentenza, che leggerla. Sembrano un plotone d’esecuzione. Per tagliare l’aria, sparo battute sceme. Ridono di gusto. Saranno sinceramente divertiti? O dissimuleranno la compassione, in questo caso il compatimento, dovuta al morituro? Alcuni di loro li ho già conosciuti 48 giorni fa, per esempio la dottoressa Esposito, una neurologa che studia le famiglie di pazienti con sclerosi multipla per capire quanto il genoma influisca sulla malattia. S’è prestata a prelevarmi dal braccio destro le tre provette di sangue, meno di 5 millilitri, da cui è stato estratto il mio Dna. E ovviamente Stupka, biologo, condirettore con Giorgio Casari del centro suddiviso in 6 unità di lavoro. Stamattina, al mio arrivo, l’ho incontrato per caso nell’atrio del Dibit, il dipartimento di biotecnologie del San Raffaele. Ho cercato subito di sdrammatizzare: non mi dica che devo morire, tanto lo so già. Ha sorriso ed è scappato via. Sarà un brutto presagio? È difficile descrivere che cosa si prova ad aspettare per quasi due mesi notizie sul proprio destino. All’inizio ci scherzi sopra. Poi, a mano a mano che si avvicina il giorno fatidico, s’insinua sotto pelle una strana inquietudine. No, non angoscia. Un fatalismo buzzatiano. Mi frulla in testa la domanda che Aubrey Milunsky, direttore del Center for human genetics dell’Università di Boston, ha posto a John Lauerman, un giornalista di Business Week che ha seguito il mio stesso percorso: «Perché vuoi sapere? Inviti l’ansia nella tua vita». Adesso penso a mio fratello Paolo. Entrò qui, al San Raffaele, sereno. Aveva due anni in meno di quanti ne abbia io oggi e un figlio in più ancora da crescere. Si illudeva che la Pet total body gli evitasse una dolorosa biopsia al mediastino. Non ci sono molti altri ospedali, in Italia, dove si esegue la tomografia a emissione di positroni. Aveva preso come un segno della provvidenza il fatto che don Luigi Maria Verzé, veronese come noi, questo macchinario invece lo avesse. Il responso non fu altrettanto benigno. Eppure l’ematologo della nostra città cui portammo il referto ne parve quasi confortato: «Vi leggo che cosa avevo scritto». Accese il suo pc, digitò nome e cognome di mio fratello e, crudelmente, declamò: «Il paziente va a Milano per sottoporsi a Pet. Sta solo perdendo tempo». Maligno profeta: morbo di Hodgkin con massa mediastinica e poi linfoma non Hodgkin B diffuso a grandi cellule. Anche una gangrena gassosa frutto della chemioterapia ripresa con quel mese di ritardo che tanto aveva indispettito il cattedratico. Tutti dicevano che, dei cinque fratelli, noi due eravamo quelli più somiglianti. Dunque perché è toccato a lui e non a me? Come sommo sacerdote del sinedrio che oggi mi giudicherà, Stupka ha la faccia giusta ma l’età sbagliata: farà 35 anni il 9 maggio. Fino a 11 mesi fa insegnava all’University college di Londra, però non vuole essere chiamato professore: «Ora mi dedico solo alla ricerca». Ha scelto di trasferirsi al San Raffaele incurante del terremoto che a giugno 2011 squassava l’istituto scientifico fondato da don Verzé. È rientrato in Italia proprio per seguire questa nuova attività: l’esplorazione del genoma attraverso il sequenziamento completo, in modo da offrire ai dipartimenti clinici del San Raffaele la possibilità di personalizzare e migliorare i metodi di prevenzione, diagnosi e cura. «Quello che possiamo interpretare oggi nel suo genoma è solo una piccolissima frazione di ciò che sapremo fra uno, cinque o dieci anni» cerca di tranquillizzarmi. «Le informazioni di cui disponiamo non aumentano di giorno in giorno, bensì di ora in ora». Stupka è nato per caso a Quartu Sant’Elena, in Sardegna. Si considera cittadino del mondo. Né potrebbe essere diversamente: il padre Michal, un pittore e scultore morto quando lui aveva 6 mesi, era di Praga; la madre Marta, linguista che abita a Belluno, è di Roma. Nell’albero genealogico ha una nonna moscovita, un nonno ceco e due nonni veneti. È sposato con Ann Tsitskishvili, regista, originaria di Tblisi, capitale della Georgia. La coppia ha una figlia, Anais, 9 anni, nata a Singapore nel periodo in cui Stupka era project manager all’Institute of molecular and cell biology, dove ha sequenziato il genoma del fugu, il velenosissimo pesce palla che solo gli chef giapponesi riescono a cucinare. Il biologo che mi ha scandagliato il Dna vinse la prima borsa di studio a 16 anni, mentre era al liceo scientifico. Gli valse l’ammissione al Collegio del mondo unito di Duino: «Mi affascinava il mistero della vita, volevo capirne i meccanismi». Dopo la laurea all’Università di York, lavorò per due anni al progetto genoma a Cambridge, per tre al Telethon institute of genetics and medicine di Napoli, per altri tre al Centro di biomedicina molecolare di Trieste. Provo un senso di colpa quando Stupka mi spiega che l’esame cui sono stato sottoposto costa 8 mila euro più Iva. Mi rincuora subito: «Lo scorso anno ce ne volevano 20 mila. E nel 2010 la spesa era addirittura di 100 mila euro». Sempre Iva esclusa. Su internet si trovano in vendita test da 100 a 500 euro, che però riguardano solo una piccolissima porzione del genoma. I prezzi si abbassano velocemente perché la tecnologia migliora di mese in mese, tanto che Barack Obama ha lanciato negli Stati Uniti la campagna «The thousand-dollar genome», 1.000 dollari per il genoma. Dovrà essere quello il prezzo massimo per farlo diventare un esame di routine fin dalla nascita. Nel frattempo il San Raffaele ha deciso di dedicare alla genomica la campagna 5 per mille del 2012. Le donazioni dei contribuenti finanzieranno quattro linee di ricerca onerosissime. Una contro la sclerosi multipla. Un’altra contro il carcinoma prostatico. Un’altra ancora per il diabete di tipo 1 giovanile, che colpisce tanto i bambini quanto gli adulti. L’ultima per sconfiggere malattie rare come la sindrome di Brugada, provocata da un’alterazione genetica che causa anomalie nel ritmo cardiaco e uccide all’improvviso. Vale la pena di investire, perché è questa, insieme con la farmacogenetica, la nuova frontiera per la cura di 2.500 patologie complesse e infrequenti. Già adesso, modificando una singola base del Dna con virus «buoni» creati in laboratorio, al San Raffaele sono riusciti a correggere il gene responsabile dell’Ada-Scid, un deficit enzimatico responsabile dell’immunodeficienza congenita che costringe i «bambini bolla» a vivere prigionieri in un ambiente asettico. Mentre Stupka mi illustra nel dettaglio com’è avvenuto il sequenziamento, mi rendo conto che, per soli 8 mila euro, io manco ci avrei provato: «Il suo genoma, come quello di tutti, si compone di 3 miliardi di basi, o caratteri. Per farceli stare su un foglio, servirebbe una striscia di carta in formato A4 lunga due metri. Li indichiamo con le lettere che designano le quattro basi azotate del Dna, A, C, T, G, adenina, citosina, timina, guanina. La variazione nella sequenza del Dna a carico di una singola base è detta Snp, single nucleotide polymorphism. Ogni Snp corrisponde a una modificazione genetica. Alcuni polimorfismi sono privi di effetto, altri possono indicare la propensione a una patologia, altri ancora possono essere sufficienti a spiegarla». Le diapositive che narrano la mia essenza più recondita scivolano sullo schermo accompagnate solo dal ronzio del proiettore. Nel leggere le didascalie che accompagnano il grafico «Tipi di mutazione», ho un sussulto ma cerco di non darlo a vedere: delezioni, duplicazioni, inversioni, traslocazioni, inserzioni. Non suonano bene. Io ero fermo alle inserzioni pubblicitarie. Anche le procedure di laboratorio per arrivarci rasentano l’inconoscibile: estrazione del Dna, va bene; frammentazione del Dna, d’accordo; preparazione del campione per il sequenziamento, capisco. Ma come avverrà il «sequenziamento mediante HiSeq2000 Illumina»? Osservo l’avveniristico cervello elettronico con la stessa soggezione che mi incuteva l’occhio magico di Hal 9000 quando da ragazzo mi capitò di proiettare 2001: Odissea nello spazio al cinema Filarmonico di Verona, nella magnificenza del Todd-Ao 70 millimetri. Alla voce «Analisi dei dati», riprendo fiato: una figura amica. Un computer. Fin qui ci potevo arrivare anch’io, ragiono fra me. E invece no: «Per essere certi che non vi fossero errori, abbiamo sequenziato il suo genoma 50 volte, quindi sequenziato 150 miliardi di basi, il che ha richiesto 8 di giorni di lavoro, 24 ore su 24, con pc dotati di una potenza di calcolo fuori dall’ordinario» chiarisce il direttore dell’Unità di funzione del genoma. Finalmente appare sullo schermo la rappresentazione grafica del mio patrimonio genetico. Moto di delusione: assomiglia al disco tachigrafo che devono conservare gli autotrasportatori. Volendolo interpretare poeticamente, un occhio. La corona esterna, nera, è rappresentata dai 22 cromosomi, più X e Y. Procedendo verso il centro, si vedono i geni contrassegnati in verde. «Nell’uomo ne sono stati identificati circa 23 mila» precisa Stupka. «Il loro compito è costruire le proteine che rendono possibili le funzioni vitali». Il terzo cerchio, giallo, ricorda un profilo altimetrico: «È la raffigurazione grafica di quante volte siamo riusciti a sequenziare il suo genoma». Nell’ultima corona, la più interna, una selva di cellette riempite da puntini azzurri: «Sono gli Snp. All’interno dei 3 miliardi di lettere che formano il genoma, la comunità scientifica ha classificato 18 milioni di basi che possono essere diverse da un individuo all’altro. Di solito in una persona se ne trovano 4 milioni. Molte già note, altre sconosciute. Variazioni delle singole basi del Dna». C’è lo Snp che permette la percezione del gusto amaro, quello che regola la metabolizzazione dell’alcol, e persino quello, scusate la prosaicità di stagione, che fa distinguere solo a un 40 per cento di soggetti l’odore della pipì provocato dalla degradazione delle sostanze sulfuree contenute negli asparagi. «Questi sono i suoi Snp». Mammamia, quanti! Le informazioni genetiche che se ne ricavano sono di tre tipi: attitudinali, mediche, farmacologiche. Nel primo caso svelano le caratteristiche personali; nel secondo caso indicano un’inclinazione verso malattie genetiche rare e malattie complesse o autoimmuni, tipo tumori, diabete, sclerosi multipla, Alzheimer, Parkinson, celiachia, la cui eventuale manifestazione dipenderà però anche da ambiente, abitudini alimentari, stress e altri fattori; nel terzo caso evidenziano l’utilità oppure la tossicità che un farmaco può avere sull’individuo. Siamo alla sentenza. Il dottor Stupka la prende larga: «Dal sequenziamento risulta che lei è un maschio europeo». Meno male. «Dei 4 milioni di basi del suo genoma, il 98 per cento sono note mentre il 2 per cento sono nuove». Ahi. «I geni che sembrano rotti sono soltanto 5». Ahi ahi. «In realtà, se avessero un effetto importante, questo sarebbe legato a malattie gravi che di solito insorgono nell’infanzia». Di solito. «Abbiamo riscontrato un 20 per cento di probabilità in più di sviluppo delle patologie cardiovascolari». Ho capito, infarto. «Ma siccome l’unico campione di Dna disponibile per un confronto era formato da sole donne, non lo prenderei come un dato predittivo molto significativo». Non lo prendo. Nota lieta: «Lei non discende da Gengis Khan». Come, prego? «Il fondatore dell’impero mongolo morto nel 1227. Aveva un esercito a struttura piramidale, che gli riservava le donne più belle sequestrate ai nemici. Ebbe perciò migliaia di figli. Si calcola che l’8 per cento degli asiatici e lo 0,5 per cento della rimanente popolazione mondiale, vale a dire 30 milioni di individui, discendano dal terribile condottiero. Non è il suo caso. Altrimenti avremmo trovato nel genoma una base modificata: una A al posto di una T». Dunque di chi sono figlio? «Posto che il cromosoma Y viene ereditato esclusivamente per via paterna e ci può raccontare parte della storia dell’uomo moderno e delle sue migrazioni, lei appartiene all’aplogruppo Y-G1». L’aplogruppo G dovrebbe avere 30 mila anni. Proviene dal Medio Oriente: Iran, Siria e Arabia. Si stima che l’8-10 per cento degli italiani appartenga a questo gruppo. Adesso mi spiego quel sentirmi a casa mia nei paesi dove il muezzin chiama alla preghiera dell’al-fajr, quando il sole sorge e i più vorrebbero dormire ancora. «Il cromosoma mitocondriale, invece, ereditato per via materna, indica che lei appartiene all’aplotipo H1, presente in una frazione importante del Dna europeo, che trova le sue massime frequenze tra i baschi, gli iberici, i sardi e i nordafricani, in particolare i tuareg libici. Questo aplotipo durante l’ultima era glaciale trovò rifugio nella regione franco-cantabrica, fra la Provenza e le Asturie, da dove 13 mila anni fa si espanse in Europa. Nell’Italia del Nord una persona su 10 appartiene a questo gruppo» specifica Stupka. Altra nota lieta: «È risaputo che l’Homo sapiens e l’Homo neanderthalensis hanno condiviso lo stesso areale. Sebbene il secondo si sia estinto, nell’uomo moderno rimangono tracce della sua discendenza. Ma lei porta solo 12 Snp su 84 caratteristici di Neanderthal. Insomma, ha molto più in comune con l’Homo sapiens. Inoltre: il suo genoma non ricade fra quelli italiani». Per rendere plasticamente il concetto, Stupka mi proietta un grafico tappezzato da centinaia di bandiere nazionali dell’Europa, con un puntino nero che mi situa all’estrema periferia di un mare di tricolori, vicino ai vessilli di Svizzera, Regno Unito, Francia, Portogallo e Spagna. Quest’ultima parentela non sarebbe stata bene interpretata da Gianni Brera, che negava doti di acutezza mentale agli argentini in quanto ritenuti una mescolanza di italiani e spagnoli. Io, comunque, non posso lamentarmi: sono portatore della base genomica Rs53576, che denota una spiccata predisposizione all’intelligenza emotiva e alla socievolezza. «Ciò che risalta nel suo genotipo G-G è la capacità di percepire le emozioni altrui» suona la cetra Stupka. «All’empatia comportamentale e all’intelligenza non verbale, unisce una notevole propensione alla paternità. La maggioranza delle persone è del genotipo A-G. Solo una su quattro è come lei, G-G». Con queste premesse, ormai mi sento pronto a tutto. «Lei sembra essere portatore di una modificazione nel gene SLCO1B1 che si associa a un rischio 4,5 volte più elevato del normale di incorrere in effetti collaterali muscolari e altri guai severi, come la colorazione rosso-brunastra delle urine, qualora assumesse farmaci che abbassano i livelli di colesterolo». Non a caso, il mio medico di famiglia Paola Donato m’è testimone, ho sempre rifiutato, d’istinto, le statine. «Lei è fumatore?». Mai stato. «Meglio così» approva Stupka. «Le abbiamo trovato uno Snp, l’Rs16969968, associato a una forte dipendenza dalla nicotina, quindi, se fosse tabagista, a un’elevata probabilità di fumare un numero maggiore di sigarette e di non riuscire a debellare questo vizio. Abbiamo anche notato varianti nel gene per il recettore degli androgeni, con un rischio aumentato di oltre 3 volte di sviluppare calvizie di vario grado». Mi trattengo dal mettermi le mani nei capelli. Il giro lungo è servito per rendere meno tramortente la mazzata finale. «Abbiamo trovato due mutazioni genetiche che portano alla maculopatia: il rischio è 2,7 volte più elevato per la prima e 8,2 volte per la seconda». Qui mi ribello: non è possibile! Due anni fa, in occasione di un’intervista, il professor Ruggero Frezza, fondatore della M31 di Padova, volle sottopormi all’esame della retina con un apparecchio brevettato dai suoi allievi, chiamato Maia, acronimo di Macular integrity assessment. E risultò che la macula lutea era sanissima. «Non per fare il guastafeste, ma la degenerazione maculare sopraggiunge di norma dopo i 60 anni» smorza gli entusiasmi Stupka. Mi ritiro in buon ordine, preparato a qualsiasi altra calamità. «Vedo qui un insieme di Snp che segnalano una possibilità del 50 per cento di sviluppare il diabete di tipo 2». Magari ci potevo arrivare da solo, dall’alto dei miei 111 chili di peso. «In più abbiamo individuato un polimorfismo nella regione codificante del gene PTPN22, che può aumentare la reazione complessiva del sistema immunitario perché il suo corpo è meno capace di disattivare le cellule dette linfociti T. Questo polimorfismo conferisce un rischio maggiore del normale per malattie autoimmuni quali diabete di tipo 1, tiroidite di Hashimoto e artrite reumatoide». Mi viene quasi da giustificarmi: di artrite reumatoide ha sofferto mia mamma sino alla morte, sopraggiunta alla vigilia degli 88 anni. Ho un nitido ricordo delle sue dita simili a tralci di una vite. Avevo sempre attribuito quelle deformità alle tribolazioni che patì da bambina, quando d’inverno veniva mandata a fare il bucato alle 4 di mattina al lavatoio pubblico e doveva rompere con uno zoccolo il ghiaccio formatosi nottetempo nel vascone, perché la proprietaria della stalla, dove mio nonno carrettiere era costretto a far convivere bipedi e quadrupedi, pretendeva che i suoi panni non venissero lavati nell’acqua contaminata da altri. Invece il gelo non c’entra nulla. Ho ereditato da lei una delle due lettere del genotipo T-T che m’impedirà, nel caso si manifestasse l’artrite reumatoide, di contrastarla con uno dei farmaci più comuni prescritti a chi ne soffre: il metotrexato. Sarebbe tossico. E infatti mia madre rifiutò sempre qualsiasi cura. Un po’ di cortisone quando il dolore diventava insopportabile. «Ma solo un quartino di pastiglia, perché mi fa male» diceva. Senza farsi sequenziare il genoma, aveva capito tutto. Uscendo dal Dibit, mi fermo a guardare la doppia elica del Dna, un’enorme scultura di legno e alluminio che pende dalla cupola del San Raffaele. Una simbologia voluta da don Verzé. Il fondatore credeva nell’inscindibilità di corpo, psiche e anima. E pensava che nel genoma vi fosse il collegamento fra Dio e l’uomo. L’unico Snp che, per 8 mila euro più Iva, avrei tanto desiderato che il dottor Stupka mi trovasse.