DOMENICO QUIRICO, La Stampa 25/4/2012, 25 aprile 2012
Tra i tuareg nel regno di Al Qaeda - Ho«Malinistan»attraversatoeil nonconfineme delne sono accorto
Tra i tuareg nel regno di Al Qaeda - Ho«Malinistan»attraversatoeil nonconfineme delne sono accorto. In un punto c’era una linea invisibile, un uadi o un cespo di capanne, ed era il confine, il pickup l’ha passato come se niente fosse. In ogni confine c’è qualcosa di terribilmente definitivo, una linea e addio. Le ruote ci passano sopra come passerebbero sopra un corpo, anche se fosse un uomo vivo. Forse avrei dovuto intuirlo: quando gli uomini che erano con me si girarono - il panno dei turbanti stretto attorno al capo, all’altezza del naso - e tirarono fuori la piega della stoffa, sopra gli occhi, come la visiera di un elmo medioevale, lasciando solo una stretta e mobile fessura per gli occhi. Dunque è così, che sarebbe avvenuto, impercettibilmente: sono nell’Azawad. Una parola cupa, bella e piena di dolore. L’Azawad, «la terra dove c’è pascolo» in tamasheq, la lingua dei nomadi, che il pollice di Dio ha fissato una volta per tutte, al momento della creazione. Il Mali, lo stato e i suoi soldati, sono fuggiti due settimane fa. Ora ci sono i tuareg ribelli, e i salafiti e Al Qaeda, ed è un caos che nessuno comanda. Si ha sempre un senso di colpa quando si entra in abiti civili nelle regioni dove c’è la guerra e la morte: dopo tutto non si va a visitare un disastro se non per portare soccorso. Ci si sente come dei voyeurs della violenza. Lo confesso: i tuareg mi piacciono, per quella autonomia piena di giubilo, esaltante, che reca l’immensità. Perché la loro vita zoppica sempre di più, hanno ucciso le loro bestie, avvelenato i loro pozzi, violentato le loro donne, li hanno strangolati con le siccità e il sottosviluppo, i governi dei neri. Noi con il finto esotismo, e l’oblio. Per Ali che guida il pick-up verso Menaka ogni giro di ruota dopo il confine strappa un pezzo della sua vita, una vita infelice. Per lui quella ricchezza di verde, le colline tonde e vanitose lungo il Niger , avevano qualcosa di indecente, di ostentato. Sentiva, prepotente, la nostalgia di paesaggi spogli. Ha gli occhi pieni di tutto il divertimento della vita. È tuffato nel ricordo di menestrelli, guerrieri, grandi gazzelle che non ci sono più perché il governo ha concesso ai ricchi arabi di sterminarle sparando gioiosamente dai fuori strada climatizzati; di marabutti come Askja Mohamed, che nel grande pellegrinaggio seminò dietro di sè, nella sabbia, uomini stanchi e non abbastanza saldi nella fede; e quelli divennero i cittadini di Gao e di Agadez. «Peccato, c’è un po’ di confusione». Così l’ha chiamato, Ali, il tumulto che fa paura all’Occidente: «Non possiamo salire fino alle “chele del granchio”, peccato, è un posto pieno di magia, perfino pericoloso. Molti lì hanno visto il diavolo e sono diventati pazzi». Lo so che, in tasca, lui tiene i gris gris, gli amuleti, e ne ha uno efficace perfino contro l’indifferenza delle donne. Non gli basteranno i gris gris, povero Ali. Sono venuto qui convinto di raccontare un sogno che si realizzava, uno Stato per i tuareg popolo senza terra, sì, un’altra primavera come quelle arabe a Nord. E invece devo raccontare la loro fine. È l’ultima sconfitta degli uomini blu, e stavolta non risorgeranno. Annegheranno nel grande mare arabo e non saranno più nulla. Sono arrivati nel deserto fuggendo gli arabi invasori, questa era la loro trincea, hanno resistito, si sono battuti. Il fondamentalismo e Al Qaeda sono nient’altro che l’ennesima invasione. Solo che questa volta non resisteranno. Noi, l’occidente, potremmo aiutarli. Invece li chiamiamo terroristi e salafiti. Sono soli come sempre. Bajan ag Hamatou è il sultano di Menaka e deputato di questa regione da trent’anni: «La proclamazione della indipendenza dell’Azawad? È l’invenzione di qualche tuareg che vive a Parigi e sta seduto comodo davanti al computer: un clic ed ecco inventato l’Azawad! Noi spariremo come sono già sparite le gazzelle. Tutto era di cartapesta: lo Stato del Mali, lo Stato dei tuareg, tutto costruito sul niente come in Africa. Tutto deve crollare, poi forse si potrà ricostruire. Come l’Italia dopo la guerra. Quando c’è stata la grande siccità e noi tuareg morivamo di fame e di sete, hanno creato un’associazione, per sedentarizzarli e salvarli. Sono andato a Parigi a cercare aiuto, eravamo di moda, allora; gli uomini blu, i guerrieri del deserto ... Mi hanno detto: ma no! Sei pazzo, fare delle case per i tuareg, fissarli a un luogo! Ma è la vostra cultura! Capisci: volevano amare i tuareg più e meglio di me! Adesso i salafiti mi hanno detto: vieni a pregare con noi a Gao liberata: ho risposto no, ho 64 anni ed è troppo tardi perché cambi modo di pregare». Il vento, adesso che attraversiamo vasti campi di lava scura e catene di roccesabbiose, e il moto del pick-up pare quasi un’immobilità di sforzi vani, ha un sapore di fornace. Eppure il khamsin seduce, forse è per un certo impegno di cosciente, meticolosa malevolenza che mette nella sua lotta contro gli uomini e le cose. Anche «il Maggiore» all’inizio mi piaceva. È tuareg, era nell’esercito del Mali, prima. E comandava la zona. Come ora. Si muove a scatti come chi è inseguito e si tiene pronto a nascondersi o fuggire con la massima rapidità, il suo volto di lince piccolo, appuntito, sorride sempre. La corruzione, in fondo, ha un suo spiccato fascino, e non si può dubitare della sua: l’ha come fosforo, inequivocabile, alla superficie della pelle. Poi l’ho visto mangiare gli spiedini, vorace, due, quattro, dieci, intinti fino all’orlo nella salse; e il dito medio dall’unghia lunga e puntuta che serviva alla pulizia dei denti. Tutto, soggiorni nelle accademie militari, l’imitazione borghese, è crollato di colpo. E allora ho pensato che la pista di atterraggio nel deserto di «Air cocaine», il Boeing 727 zeppo di dieci tonnellate di droga, non era lontano. In Colombia, da dov’era partito, la cocaina costava mille euro al chilo; in Africa, dove transita verso l’Europa, sono già diventati dodicimila. A fare i conti di quanto incassano i funzionari corrotti, e Al Qaeda che permette e protegge il passaggio, viene la vertigine. E inizi a capire questa guerra. In soli tre giorni l’esercito dei sudisti, smunto da generali addetti al contrabbando e da soldati neri che non ricevono la paga e le armi, è fuggito. Gli ufficiali felloni hanno organizzato a Bamako un putsch grottesco per non essere giudicati e non tornare a combattere. Il Nord è diventato un Paese terremotato, deteriorato, una gigantesca avaria; il nichilismo militare è diventato nichilismo politico, come nella Somalia dei signori della guerra e degli islamisti. I tuareg, che hanno fatto da miccia , non controllano più la loro terra. Perché sulla scena sono saliti, nello sperdimento di ogni regola e ordine, i salafiti, goccianti fanatismo, riuniti nel gruppo Ansar Dine; e i loro alleati di Al Qaeda. Gli emiri del deserto, barbe brigantesche e teologiche certezze. Piccoli, feroci Bin Laden algerini con le loro bande, gente da sacco e da forca, viaggiano pregano, amministrano fanno discorsi, controllano Gao, Timbuctu, la città dei 333 santi, Mopti, dove scalmana l’avvio ancora tiepido della sharia più integrale e nefasta. Un altro veicolo ci viene incontro nei vapori ondeggianti della polvere. Chi sono ? Questi giorni, con le scorrerie e il caos, non conoscono amici nel Nord del Mali. Sono tuareg di scorta, solo occhi ci guardano nella fessura del turbante, al riparo dall’aria ardente che passa sui volti come una maschera di metallo. Moulaye, come succede a chi è uso a stentare la vita ha un dolore virile e pudico e non fa storie È un «ishomar», una deformazione del francese «chomeur», disoccupato, un tuareg che la miseria ha sradicato dalla sua tradizione ed è entrato nella modernità per vie traverse, un figlio dell’oblio e della siccità finito nella legione verde di Gheddafi a guadagnarsi il pane e la sopravvivenza. Uno dei duemila che con armi pesanti sono venuti ad accendere la rivolta a Kidal, la prima città liberata. Moulaye combatte da sempre, vecchio soldato cuore di bronzo. Ma anche lui sa di essere vinto: «Noi tuareg non esistiamo più, ormai, noi che siamo statiper anni in Libia siamo arabi, il tamasheq lo parlano solo alcuni in casa. Se tutto andrà bene chissà un giorno mi comprerò due cammelli e un pezzo di terra nella brousse per andare il fine settimana a fare il tuareg. Come ho visto fare ai libici ricchi». La città di Menaka, nella regione di Gao, prima contava 40 mila abitanti dentro la sua cintura di immondizia e di plastica che l’avvolge come le spire di un pitone. Metà almeno sono fuggiti, trovi nelle strade solo gente sparpagliata, a grumi allarmati e diffidenti, gente sul chi vive che non sa come si metteranno le cose. Per ora comanda la tribù di questa zone, una sorta di comitato di autodifesa, ma i salafiti possono arrivare. Donne e bambini sono fuggiti, sono rimasti gli uomini a tener d’occhio gli «affaires», che più sono miseri più sono indispensabili alla vita. In questa guerra che non ha contato vere battaglie ma solo ritirate precipitose e avanzate fulminanti, e le città sono cadute come un frutto troppo maturo, da sé, i morti sono pochi. Ma l’ospedale, che la cooperazione italiana aveva finanziato, è stato saccheggiato, non ci sono più medicine. Anche la grande scuola per mille allievi e alcuni uffici pubblici, simbolo dei sudisti, sono stati saccheggiati. Forse perché amano lo spazio aperto, le case dei tuareg sono catacombe immerse nell’ombra. I salafiti di Ansar Dine sembrano più forti, hanno denaro e armi: «Noi siamo gente semplice, la più grande paura è sentirsi dominati, dover obbedire. Perfino quando combattiamo non accettiamo di essere comandati. Se qualcuno ci prova gli diciamo: non sei padrone della mia coscienza. Per questo neppure Al Qaeda potrà darci ordini. Oggi discutiamo con i salafiti, ma per esempio non potranno certo imporci di velare le donne». L’orgoglio: non ostentato in superficie neanche fosse una malattia della pelle e sensibile al minimo tocco. Il loro è sepolto in profondità. È quanto resta all’occidente distratto e pauroso che non si è ancora accorto di avere un Afghanistan alle porte del petrolio libico, dell’uranio del Niger, del gas algerino. E sulle piste dei nuovi schiavi che salgono, pieni di rabbia, verso l’Europa. È Iyad Ag Ghali l’uomo decisivo; dicono che ha incontrato alZahawiri. Ma ha fondato Ansar Dine per sottrarre i giovani tuareg alla tentazione di Al Qaeda. L’occidente e il governo del Mali devono fargli offerte per convincerlo a battersi contro Al Qaeda, a non imboccare una via senza ritorno. Far parte del deserto, e i tuareg lo sanno, significa essere condannati a una eterna battaglia contro un nemico non di questo mondo né di questa vita né di null’altro. Se non, forse, la stessa Speranza.