RICCARDO ARENA, La Stampa 25/4/2012, 25 aprile 2012
“Dell’Utri mediò tra mafia e Cavaliere” - «Ma perché hanno annullato la condanna?». Il procuratore aggiunto di Palermo, Antonio Ingroia, ci scherza un po’ su
“Dell’Utri mediò tra mafia e Cavaliere” - «Ma perché hanno annullato la condanna?». Il procuratore aggiunto di Palermo, Antonio Ingroia, ci scherza un po’ su. Lui dice che in fondo si aspettava una sentenza così: del tutto diversa da come se l’era immaginata mezza Italia. Dalle motivazioni della decisione della Cassazione, che il 9 marzo scorso aveva annullato con rinvio la sua condanna a sette anni, Marcello Dell’Utri non esce infatti né assolto né riscattato. Esce come l’avevano dipinto i giudici di appello di Palermo: grande mediatore («trait d’union», scrive la Suprema Corte) e protettore, rispetto alla mafia, del suo amico Silvio Berlusconi, dall’inizio degli anni ‘70 fino al 1992. L’annullamento è così legato non alle critiche del reato di concorso esterno in associazione mafiosa, argomento su cui aveva battuto il procuratore generale Mauro Iacoviello, suscitando reazioni opposte dalle diverse «tifoserie», ma ad aspetti tecnici: i giudici, che a Palermo dovranno tornare ad occuparsi del senatore del Pdl, dovranno spiegare meglio un paio di aspetti, in particolare quelli relativi alle condotte poste in essere dall’imputato nel periodo compreso tra il 1978 e il 1982. È il periodo in cui Dell’Utri si allontanò da Berlusconi e si avvicinò al finanziere di Sommatino, Filippo Alberto Rapisarda, un siciliano che dalla provincia di Caltanissetta fece fortuna a Milano: in che modo l’imputato contribuì, in quegli anni, a un’associazione mafiosa che in precedenza aveva sicuramente agevolato? E dopo il 1982, quando tornò dall’amico Silvio, quale fu «l’elemento psicologico del reato», cosa spinse cioè l’attuale senatore a tenere i contatti con i clan? La volontà di agevolare Cosa Nostra o quella di aiutare Berlusconi? Se valesse la seconda ipotesi, potrebbe cadere l’accusa. Ma le premesse sono tutt’altro che favorevoli, per il senatore.È su questo, comunque, che si giocherà il processo «di rinvio», che dopo il deposito delle 146 pagine della sentenza 15727 della quinta sezione della Suprema Corte, dovrebbe essere fissato a Palermo entro l’autunno. Il rischio della prescrizione nel 2014 si allontana: la separazione delle condotte contestate a Dell’Utri, con la cesura del periodo ‘78-82 a fare da spartiacque, potrebbe, paradossalmente, fare allungare i termini. «E quella riforma fu voluta dal centrodestra: che beffa», chiosa Ingroia.La sentenza della Cassazione non è per niente una bocciatura del lavoro della seconda sezione della Corte d’appello di Palermo. La decisione del 29 giugno 2010 regge per tantissimi aspetti, a cominciare dalla «corretta valutazione delle convergenti dichiarazioni dei pentiti». E così Vittorio Mangano, dopo la discutibile rivalutazione seguita all’annullamento di un mese e mezzo fa, torna ad essere quello che era: un mafioso, assunto ad Arcore «per il tramite di Dell’Utri», operazione che fu «la risultante di convergenti interessi di Berlusconi e Cosa Nostra». Questo in virtù di un «accordo protettivo non gratuito, in cambio del quale sono state versate cospicue somme da parte di Berlusconi in favore della mafia». L’ex premier aveva la posizione della vittima, di fronte alle cosche: ma lui solo, e non Dell’Utri, per il quale questa valutazione è «implausibile». Il Cavaliere, nei caldissimi anni 70, temeva i sequestri di persona, suo o di qualcuno dei familiari, dunque agiva «in stato di necessità», però ricorrendo a una sorta di «trattativa economica preventiva, per “monetizzare” il rischio cui era esposto», da parte delle «fameliche consorterie criminali». In questo contesto il giudice relatore, Maria Vessicchelli, ritiene più che provato l’incontro del 1975 fra Berlusconi, Dell’Utri e i boss Stefano Bontade, Mimmo Teresi e Francesco Di Carlo, narrato da quest’ultimo, oggi pentito. Quello che rimane fuori dalle contestazioni della Procura, come già era avvenuto con la sentenza della Corte d’appello di Palermo, è la parte relativa al presunto sostegno elettorale a Forza Italia da parte di Cosa Nostra, dunque tutta la parte che va dal ‘92 in poi, sorretta dalle dichiarazioni «estremamente approssimative e generiche» del pentito Gaspare Spatuzza. Bene avevano fatto i giudici siciliani, sottolinea la Suprema Corte, anche a non ascoltare Massimo Ciancimino, ritenuto anche a Roma inattendibile e generico.