ALESSANDRO ALVIANI, La Stampa 24/4/2012, 24 aprile 2012
Cinque medaglie alle Paralimpiadi Poi l’atleta cieca prende la patente - Yvonne Hopf ha vinto cinque ori olimpici nel nuoto, proprio come la leggenda australiana Ian Thorpe
Cinque medaglie alle Paralimpiadi Poi l’atleta cieca prende la patente - Yvonne Hopf ha vinto cinque ori olimpici nel nuoto, proprio come la leggenda australiana Ian Thorpe. La differenza: la Hopf ci è riuscita in un’unica Olimpiade, quella di Atlanta del 1996, quando aveva soli 18 anni. Quel trionfo ha trasformato lei che, come aveva scritto la Faz l’anno prima, «non vede la parete verso la quale nuota», in una star dello sport per disabili in Germania. «Il suo più grande sogno – notò allora la Faz - è Sydney 2000». Un sogno che non si è mai realizzato. La sua carriera è terminata infatti nel 1998. Il perché lo rivela ora «Der Spiegel»: durante un controllo i medici scoprirono che Yvonne Hopf aveva una capacità visiva superiore al 10%, limite invalicabile per poter partecipare alle gare delle discipline paralimpiche. Cioè ci vedeva meglio di quanto non si pensasse. Poco dopo Yvonne Hopf, che al settimanale ha confermato quel verdetto, superò anche l’esame per la patente di guida. Un caso isolato? Non proprio: tra gli atleti che partecipano alle gare riservate ai disabili si intrufolano alcuni che simulano un handicap durante le visite di routine, spiegano alcuni esperti allo «Spiegel. Una diagnosi precisa appare complessa soprattutto nei casi di cecità. Così alle Paralimpiadi di Torino una fondista russa partita ufficialmente come non vedente si è girata verso il tabellone dei risultati al suo arrivo, e, dopo aver realizzato di aver vinto una medaglia, ha alzato le braccia al cielo e iniziato a festeggiare. «Noi facciamo test molto duri, ma chi vuole simulare un handicap ci riesce», spiega Jürgen Schmid, psicoterapeuta che da sedici anni lavora come classificatore per la federazione mondiale del ciclismo. Il suo compito consiste nel visitare gli atleti e raggrupparli, in base al loro grado di handicap, in una delle classi agonistiche previste. A volte sotto i suoi occhi scorrono casi che di «miracoloso» hanno ben poco. Come quello di un ciclista belga che aveva dichiarato di avere un braccio paralizzato e poco dopo fu colto a telefonare con la stessa mano che non avrebbe potuto muovere. Uno degli esempi più eclatanti è quello dell’olandese Monique van der Vorst, vincitrice alle Paralimpiadi di Pechino del 2008 di due argenti nell’handbike (una bici su tre ruote spinta con le braccia). Nel 2010 annunciò che, dopo 13 anni in sedia a rotelle, era tornata a far uso delle proprie gambe, a seguito di uno scontro. Poche settimane fa ha ammesso che in realtà era in grado di camminare anche mentre gareggiava come disabile. «La sua è una doppia offesa: alle persone sulla sedia a rotelle e ai ciclisti professionisti», spiega Michael Teuber, vincitore di tre ori olimpici e 16 campionati mondiali nel para-cycling. Chi simula «è scandaloso», tuttavia, precisa Teuber, anche il sistema di classificazione va rivisto. Gli atleti si sentono sotto costante osservazione. Alcuni, nota, limitano volutamente le loro prestazioni, per non essere sospettati di non essere «abbastanza disabili» e, dunque, per non essere spostati in un’altra classe in cui si troverebbero a gareggiare con atleti con un grado di handicap inferiore al loro. Nel 2011, durante i mondiali, Teuber fu sottoposto a un controllo e trasferito all’improvviso in un’altra classe. «Per loro ero troppo veloce. In realtà faccio 15.000 chilometri l’anno di allenamento». Perché, però, ci sono atleti che simulano un handicap? Teuber ha le idee chiare: «È come col doping: è la pressione e la voglia di voler vincere a tutti i costi, dimenticando il fair play».