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 2012  aprile 24 Martedì calendario

“Sculli è uno di noi. Agli altri ho dato solo un consiglio...” - Io non mi reputo un violento»

“Sculli è uno di noi. Agli altri ho dato solo un consiglio...” - Io non mi reputo un violento». Ma guardi che la violenza non è un concetto opinabile. «Allora diciamo così: quando è il caso mi difendo». Per esempio? «Anni fa ho fatto degli errori e li ho pagati». Nello specifico? «Droga. E poi sono stato anche daspato per il famoso Milan-Genoa del ‘95, quello finito con la morte di Vincenzo Spagnolo. Ma questa volta è tutta una cosa mediatica, se mi arrestano non ha senso». Scusi? «Io al nostro capitano ho dato semplicemente un consiglio: “Se non siete in grado di onorare la maglia, toglietevela”. E voi questa la chiamate violenza?». Partita sospesa, fumogeni, bombe carta, minacce, voi quasi in campo e i giocatori che incominciano a spogliarsi, mentre uno di loro, Giandomenico Mesto, scoppia a piangere: «Ah già... Se piange lui che ha la Ferrari e entra gratis in tutti i locali, allora io cosa dovrei fare con 30 euro in tasca? Che sceneggiata...». E le parole nell’orecchio di Sculli, gli abbracci stretti, che senso hanno? «Lui gioca nel Genoa da 6 anni. Ha una storia. Abbiamo parlato insieme per far riprendere la partita, in modo da non penalizzare la squadra. Se non fosse un calciatore, Sculli sarebbe uno di noi». Perdoni l’ignoranza, ma voi chi siete? «Noi siamo i vecchi delle curva Nord. Per questo siamo andati avanti a parlare con la squadra. Io e Marco siamo come fratelli. Abbiamo trattato per evitare che la situazione degenerasse. Ci trovano qui al club “Via Armenia 5”, quello storico. Il primo di Genova». Fuori, girato l’angolo, c’è piazza Alimonda. Ed è impossibile non rivedere la scena: il ragazzo no global Carlo Giuliani agita un estintore contro un blindato, il ragazzo carabiniere Mario Placanica spara e uccide con la pistola d’ordinanza. Genova 2001, i giorni del G8. Ora le scritte sui muri contro le forze dell’ordine non sono di facile attribuzione. «Ma a noi la politica non interessa», precisa subito il nostro uomo. «E mi spiace doverlo ammettere, ma domenica allo stadio la polizia si è comportata bene». Si chiama Fabrizio Fileni detto «Tombolone», ha una catena d’oro sotto la maglietta nera e un occhio guercio: «Per il Genoa ho dato lacrime e sangue. Ho perso l’occhio infilzandomi con un’asta di bandiera mentre preparavo una coreografia». E’ sposato e padre, dice di fare tre lavori: «Traslochi, roba di fatica, anche in una cooperativa sociale». E il Genoa? «Il Genoa è l’amore». Aiuto... Questo strano tipo di amore malato produce effetti collaterali che spesso non vengono raccontati. Per dire: i pochi giornalisti locali che ieri nei loro articoli si erano azzardati a fare i nomi dei tifosi - erano a volto scoperto e in diretta tv - hanno ricevuto brutte telefonate. I nomi non si fanno. Meglio girare al largo. Anche la squadra ha anticipato il ritiro in vista della prossima partita, scappando a Milano. «Ma noi sapevamo benissimo dove trovarli - spiega Fileni - se solo avessimo voluto». E lo dice pensando di essere rassicurante. Sul presidente Preziosi: «E’ stato lui a fare togliere le maglie ai giocatori. Ora usa tutto questo contro di noi. Ma noi restiamo orgogliosi». Nuvoloni neri dal mare. Ombre improvvise. Il clima fra giocatori e società lo determinano i risultati sportivi. Facile fare previsioni. Ora che si rischia la B, qui è pessimo. Come era pessimo nel 2005, dopo la retrocessione in C per una partita comprata. C’erano stati cortei, bombe carte e ancora minacce ai giornalisti. Perché il problema è sempre lo svelamento dei fatti, non i fatti in quanto tali. «Ci prendiamo il diritto di contestare - dice Fileni - ma noi siamo gli stessi che hanno ripulito Genova dall’alluvione». Sentite invece come ragiona un esperto di intelligence di primissimo piano nazionale: «Dei fatti di Genova colpisce una constatazione. L’unico ammesso a parlare con gli ultrà è stato Giuseppe Sculli, l’unico che non si è dovuto spogliare. Quasi come se parlasse la loro stessa lingua». Il fatto è che Peppe Sculli è il nipote del boss della ‘ndrangheta Giuseppe Morabito, detto «U Tiradrittu». E purtroppo non possiamo chiedere direttamente a lui il significato di quell’abbraccio in curva, mentre la partita era sospesa e i compagni finivano in mutande. Il suo cellulare trilla a vuoto. Il Genoa ha scelto il silenzio. Ma quando giriamo la constatazione a Fileni, lui non si scompone: «Quello che hanno fatto i parenti di Sculli non ci interessa». Per raccontare la contiguità fra giocatori e ultrà, a Genova c’è un aneddoto perfetto. Anche questo viene raccontato con estrema cautela, per non dire paura. C’è un altro capo storico del tifo organizzato che si chiama Massimo Leopizzi. Estrema destra. Ha precedenti da stadio. Nel 2006 viene fermato con due pistole mentre - secondo l’accusa - sta andando ad ammazzare la moglie. Bene, quando esce dagli arresti domiciliari, alcuni giocatori del Genoa e alcuni capi ultrà vanno a festeggiare con lui. Chi c’era quella sera al ristorante? «Mi sembra Sculli e Milanetto - dice Fileni - ma eravamo in molti, non ricordo. Capita spesso di uscire insieme. Che male c’è?». In una vecchia intervista al Corriere della Sera, a proposito del nonno boss della ‘ndragheta, prima latitante e poi arrestato, un giovane Sculli dichiarava: «Sono il suo nipote prediletto e non lo rinnegherò mai. Le accuse sono cattiverie di gente invidiosa del suo carisma. In Calabria spesso ti buttano la croce addosso. Lo accusano di essere un mafioso, ma non ci crederò mai. Sono solo chiacchiere». Tutto è opinabile. Lo dice il calciatore Sculli, lo dice l’ultrà «Tombolone». E il resto, per qualcuno, è ancora il gioco più bello del mondo.