Gaia Piccardi, Corriere della Sera 25/04/2012, 25 aprile 2012
PRANDELLI E I CALCIATORI GAY: «BASTA TABU’, FATE OUTING»
Il gol più clamoroso, con quell’understatement color pastello venato di inflessioni bresciane che ne fanno da sempre un gentiluomo di provincia, dopo quindici anni di onorata vita da mediano, Cesare Prandelli l’ha segnato in giacca e cravatta, con una buona dose di coraggio, da commissario tecnico della Nazionale italiana di calcio (la disciplina, vedremo, non è un’attenuante generica), a 55 anni (il 19 agosto), rispondendo di getto all’invito di Alessandro Cecchi Paone, scrittore con Flavio Pagano di «Il campione innamorato», il libro sull’omosessualità nello sport che promette di scoperchiare il vaso di Pandora («Un grandissimo della serie A, a fine carriera, farà outing: sarà il parafulmine e aiuterà tutti gli altri...» profetizza, speranzoso, l’autore).
Mister, mi scrive la prefazione? «È una richiesta che ho accolto con entusiasmo, senza pensarci un minuto — racconta il ct travolto dall’entusiasmo della comunità gay, da Franco Grillini a Paolo Patané dell’Arcigay, dal Circolo Mario Mieli a Paola Concia —, il vero successo sarà quando non se ne parlerà più». Di calciatori omosessuali, per intenderci, perché è questo il grande tabù che, da libero vecchia scuola dai piedi buoni, Prandelli ha deciso di affrontare a viso aperto: «L’omofobia è razzismo, è indispensabile fare un passo ulteriore per tutelare tutti gli aspetti dell’autodeterminazione degli individui, sportivi compresi — scrive il ct —. Nel mondo del calcio e dello sport resiste ancora il tabù nei confronti dell’omosessualità, mentre ognuno deve vivere liberamente se stesso, i propri desideri e i propri sentimenti. Dobbiamo tutti impegnarci per una cultura dello sport che rispetti l’individuo in ogni manifestazione della sua verità e libertà. I tempi sono maturi: magari, presto, qualche calciatore farà coming out».
Ecco qua. Secoli di calcio, partite, corner, traversoni, pressing, ripartenze, occupazione degli spazi, gol, tatuaggi, sputi, orrende soffiate di naso senza fazzoletto e machismo spalmato su 90 minuti più recuperi, spiazzati dal linguaggio semplice e diretto dell’uomo che ha resuscitato l’Italia dal fallimentare Mondiale sudafricano cercando di redimere Antonio Cassano e Mario Balotelli (la vera mission impossible è questa...), perché non è un caso che a non essere uno «sport per signorine» sia proprio il calcio, l’enclave ipocritamente eterosessuale di un playground che, altrove, si è concesso boccate d’aria e d’onestà: il tennis (dalle pioniere Billie Jean King e Martina Navratilova ad Amelie Mauresmo), i tuffi (Greg Louganis e Matthew Mitcham), il ciclismo (Judith Arndt), la scherma (Imke Duplitzer), persino il pugilato (Mark Leduc) e il virile rugby (Gareth Thomas).
Noti nell’ambiente e nella geografia del campionato, dal Piemonte alla Sicilia (isole comprese), i nomi dei calciatori omosessuali in Italia sono legittimamente protetti dal silenzio, dalla complicità di compagni e allenatori («Molti tecnici sono omofobi ma grazie a Prandelli qualcosa cambierà presto» si augura Paone), da quella logica da maso chiuso che cori e striscioni da stadio, spesso nella loro elementare rozzezza, ogni domenica contribuiscono ad avallare, e che difficilmente basteranno le sagge parole da buon pater familias di Prandelli a scardinare, perché se anche un bomber o un centrocampista che si baciano dopo i gol fossero tentati dal tuffo nel vuoto, ci sarebbero un Paese e una mentalità maschilista a scoraggiarli. Dopo le quote rosa in Parlamento, forse ci vorrebbero le quote gay nello sport, però alla base della convivenza civile resta il diritto alla privacy e, sul fronte opposto, il dovere di farsi i fatti propri.
Siamo così convinti che 22 anni dopo Justin Fashanu, attaccante inglese suicidatosi per la vergogna dell’accusa di stupro di un diciassettenne, l’Italia sia pronta per questo fulminante contropiede, Mister? «Sì». Riparliamone tra cent’anni, magari. «Volentieri. Io ho molta pazienza».
Gaia Piccardi