Sergio Rizzo-Gian Antonio Stella, Corriere della Sera 25/04/2012, 25 aprile 2012
PALAZZO CHIGI E IL GESTO CHE PUO’ SPIAZZARE
Punto primo: l’esempio. Per essere credibile, un piano di tagli alla spesa pubblica non può che partire da qui. Perciò, visto che dal Parlamento alle Regioni vivono tutti con fastidio ogni controllo dei conti («come osate?») Palazzo Chigi dovrebbe fare un passo dirompente: rinunciare all’autonomia assoluta per riportare il proprio bilancio sotto la verifica della Ragioneria. Un messaggio formidabile: nessuno può spendere senza renderne conto.
In questi mesi, sarebbe ingeneroso non riconoscerlo, il governo di Mario Monti ha mostrato su questo punto un senso della misura da tempo smarrito. Tanto da tirarsi addosso, sul tormentone della sobrietà, qualche ironia. Ha sforbiciato i ministeri, ridotto le consulenze, tagliato del 92% i voli blu…
Su tutta un’altra serie di iniziative, invece, ha dovuto incassare dei «no» a ripetizione, riassumibili in romanesco così: «Nun je spetta». Tagliare le Province? «Nun je spetta». Allineare al livello europeo indennità e stipendi del Parlamento in caso di fallimento (poi arrivato) della Commissione Giovannini? «Nun je spetta». Costringere le regioni a ridurre certe spese? «Nun je spetta».
E tutto nel culto sacrale di una autonomia difesa con una gelosia così cocciuta e permalosa da far pensare spesso che mascherasse retropensieri inconfessabili. Come se le difficoltà delle pubbliche casse fossero un problema che riguarda fino a un certo punto chi ritiene di avere il diritto divino a non rendere conto delle proprie scelte. Come se perfino il contenimento di alcuni privilegi diventati offensivi in questi anni di crisi fosse una gentile concessione fatta al governo e non un obbligo per tutti coloro che sono chiamati a far la propria parte.
È in questo contesto di resistenze esasperate e spesso irritanti che la Presidenza del Consiglio potrebbe mettere tutti con le spalle al muro dando quell’esempio clamoroso: la rinuncia all’autonomia totale dei propri bilanci. E il riconoscimento alla Ragioneria Generale dello Stato e alla Corte dei Conti del diritto a controllare (e a contestare gli eventuali abusi, ovvio) perfino le spese di Palazzo Chigi.
Del resto così era una volta, fino a una dozzina di anni fa. E non risulta che Alcide de Gasperi e Amintore Fanfani, Giulio Andreotti o Giuliano Amato, Carlo Azeglio Ciampi o Silvio Berlusconi fossero per questo minati nella loro pienezza di governo. Né che la stessa democrazia, per quei controlli sacrosanti, fosse in qualche modo compromessa.
I conti di Palazzo Chigi furono sottratti alle competenze del Tesoro con un decreto legislativo varato il 30 luglio 1999, quando il premier era Massimo D’Alema. La motivazione? La rivendicazione della Presidenza del Consiglio dello status di totale autonomia finanziaria già riconosciuto al Quirinale, al Senato, alla Camera: perché loro sì e noi no?
Da allora a oggi, nessuno è più riuscito a fare marcia indietro. Vogliamo dirla tutta? Nessuno ha più «voluto» fare marcia indietro. Se mai ogni nuovo premier ha cercato di allargare ulteriormente i confini di questa sovranità assoluta ad altri «staterelli» dei dintorni. Come i ministeri senza portafoglio o la Protezione civile. Non soltanto nel caso, si capisce, di interventi di gravissima emergenza, ma anche se si trattava di restaurare una statua o allestire le regate della Vuitton Cup.
Risultato: da 13 anni, come il viceministro dell’Economia Vittorio Grilli ha più volte sottolineato, alcuni miliardi di euro vagano senza controlli sostanziali nei bilanci statali. Quasi che esistessero «zone franche» che non devono rispondere a nessuno. E non è servita a molto neppure la sentenza della Corte Costituzionale che nel 2002 restituì alla Corte dei Conti la competenza sugli atti di Palazzo Chigi sottratta con quel decreto di tre anni prima. Vittoria che di fatto, come la storia si sarebbe incaricata di dimostrare, fu solo di facciata.
Conosciamo l’obiezione: mettete forse in dubbio la serietà, la sobrietà, la ragionevolezza degli organi istituzionali ai quali venne riconosciuta quell’autonomia totale, dopo il Ventennio fascista, proprio perché fossero sottratti ai ricatti e alle prepotenze muscolari del potere esecutivo? Niente affatto. Ma il solo obbligo di rendere conto delle proprie spese, tuttavia, può aiutare chi amministra a essere più virtuoso. E al contrario la sola autonomia illimitata, dicono i numeri, incoraggia a essere più spendaccioni.
Lo dimostrano proprio i numeri di Palazzo Chigi. Dal 1999 al 2010 le spese del segretariato generale sono più che raddoppiate schizzando da 348 miliardi di lire a 488 milioni di euro. Con un aumento in termini reali, calcolata l’inflazione, del 116%. Nel solo 2000, primo anno di autonomia contabile, le spese registrarono un balzo del 28,7%. Con una impennata, per certe voci, da capogiro. I soldi tirati fuori dalle casse presidenziali per pagare il personale «comandato» (cioè preso in prestito) da altre amministrazioni pubbliche aumentarono del 44,5%. Quelli destinati alle trasferte del premier si quintuplicarono: da 903 milioni di lire a 5 miliardi e passa.
Dentro la «zona franca», in questi anni, è finito di tutto. Tre milioni per il campionato mondiale di pallavolo del 2010. Due per quello di ciclismo su pista del 2012. E poi otto per le «politiche antidroga» e 81 per il Fondo per la gioventù e 44 per quello della montagna e 26 per «la valorizzazione e la promozione delle aree territoriali svantaggiate» confinanti con le Regioni a statuto speciale e insomma i soldi per contenere le pretese di tanti comuni di «emigrare» dal Veneto al Trentino Alto Adige… Fino ai 374 milioni dei contributi per l’editoria. Per non dire delle spese faraoniche per i Grandi eventi della Protezione civile, da quelle del G8 della Maddalena a quelle per le opere dei 150 anni dell’Unità d’Italia, finite nel gorgo giudiziario delle indagini sulla «Cricca».
Su tutto, spiccano però certe spese relativamente «minori» ma difficili da interpretare non solo per gli specialisti. Che cosa erano esattamente le «attività di supporto alla programmazione, valutazione e monitoraggio degli investimenti pubblici» costate 11,4 milioni? E il «fondo eventi sportivi di rilevanza internazionale» finanziato con 10 milioni? Perché tanta genericità? Dov’è la trasparenza?
Per non parlare dell’opacità di un bilancio che dal 2000 (coincidenza?) è scomparso dal sito della presidenza del Consiglio ed è scaricabile soltanto con enormi difficoltà, per chi non paga l’abbonamento, da quello della Gazzetta ufficiale. Un esempio? Nei rendiconti di tutte le aziende pubbliche o private del pianeta (tranne quelle che vogliono occultare qualcosa, ovvio) i costi dei dipendenti finiscono sotto due o tre voci. Sapete quante sono quelle di Palazzo Chigi? Ventidue.
Dagli «stipendi agli estranei addetti alle segreterie particolari del presidente…» fino all’«indennità mensile al personale in servizio…», dal «fondo unico di presidenza» (la cui vaghezza pare fatta apposta per spingere i cittadini al sospetto) al «rimborso alle amministrazioni degli assegni corrisposti al personale in prestito…» eccetera eccetera. Ventidue voci. Al punto che sapere quanto precisamente spendiamo per pagare la gente che lavora a Palazzo Chigi e nelle sue 19 dépendance è una missione quasi impossibile.
Del resto, anche sapere quante persone sono davvero impiegate dalla Presidenza non è facile. Nemmeno, forse, per il presidente del Consiglio.
L’8 settembre 2001 il Cavaliere raccontò d’aver incontrato una Margaret Thatcher esterrefatta perché Blair aveva portato da 70 a 200 i dipendenti di Downing Street. «Sapete quante persone ho trovato io a Palazzo Chigi? Ne ho trovate 4.500. Penso che serva una rivoluzione pacifica per ammodernare lo Stato».
Bene: quando ha lasciato a Mario Monti la guida del governo, nei palazzi della Presidenza di persone ce n’erano almeno 4.600. La conferma indiretta l’ha fornita Renato Brunetta quando, replicando a fine ottobre del 2011 al Corriere, ha spiegato che al netto di «circa 400 cessazioni dal servizio», nel 2013 i dipendenti di Palazzo Chigi sarebbero stati «al massimo 4.280». Al massimo…
Torniamo al tema: mettiamo che la Presidenza del Consiglio decida di mettere i propri bilanci sotto il controllo della Ragioneria. Cosa faranno tutti gli altri? Continueranno a rivendicare il loro diritto a non rendere conto a nessuno?
Sergio Rizzo
Gian Antonio Stella