Massimo Mucchetti, Corriere della Sera 25/04/2012, 25 aprile 2012
NIENTE RITARDI E’ MEGLIO AGIRE
Il caso Finmeccanica sta minando la reputazione della Repubblica italiana nel mondo. E richiama il governo Monti al rapido esercizio delle sue responsabilità di azionista di controllo.
L’inchiesta sulla corruzione internazionale operata dalla multinazionale italiana della difesa appare tanto più grave in quanto è promossa non dalla magistratura indiana ma da una procura italiana, quella di Napoli; coinvolge il presidente della società, Giuseppe Orsi, chiamato a sostituire quel Pier Francesco Guarguaglini che è anche lui oggetto di imbarazzanti indagini, e prospetta il ristorno in patria di una parte del malloppo consegnato ai soliti mediatori per ricavarne di che finanziare sotto banco i partiti politici, Lega in primis, e integrare il portafoglio di alcuni top manager.
Il buon nome del Paese dipende certo dalla tenuta dei conti pubblici, ma anche — e in misura non inferiore — dalla serietà con cui le grandi imprese si muovono sui mercati. Già la sola ipotesi accusatoria che siano state violate le leggi anticorruzione dell’India — e per finalità tanto caserecce — getta discredito sull’intero sistema delle nostre imprese all’estero. Il governo Monti deve certo preoccuparsi che lo spread tra il Btp e i Bund non torni sopra i livelli di guardia, ma deve pure onorare le sue responsabilità di azionista di Finmeccanica.
È questo un ruolo che gli deriva da una legge del 2000, voluta dal governo D’Alema, per proteggere il campione nazionale delle alte tecnologie e della difesa in fase di privatizzazione dall’assalto di soggetti interessati a spartirne le spoglie tra i colossi francesi, inglesi, tedeschi e americani. Le varie Thales, Eads, Bae System, Siemens, Lockheed hanno subìto anch’esse l’accusa di corruzione, ancorché la giustizia dei loro Paesi non sia sorda alla ragion di stato nella gestione delle indagini. L’Italia è meno granitica. Forse, alzando lo sguardo dall’economia e dal potere, non è nemmeno un male. Ma proprio per questo il governo Monti deve avere la forza di fare chiarezza in tempi rapidi e certi. Per esorcizzare i fantasmi di Finmeccanica.
Con un’intervista al Tg 1 e un comunicato, Orsi e la società hanno negato ogni colpa. È possibile che abbiano ragione e in ogni caso l’onere della prova spetta all’accusa. Ma oggi la questione per il governo azionista non è se Orsi abbia o meno ragione. Il ministero dell’Economia non è uguale ai privati che hanno affrontato analoghe situazioni in banche e imprese. Come tutte le società quotate in Borsa, Finmeccanica appartiene a una pluralità di soci, ma anche, per il tramite dello Stato azionista, alla generalità dei cittadini. Che esigono gestioni al di sopra di ogni sospetto in tempi di riforme delle pensioni e del mercato del lavoro e hanno un cruciale interesse a conservare e migliorare il patrimonio tecnologico, la propensione alla ricerca, le abilità produttive della seconda impresa manifatturiera nazionale dopo la Fiat. Il governo dei tecnici deve dunque dire se a Finmeccanica basta l’autodifesa del suo presidente o se ha bisogno d’altro.
Negli ultimi 10-12 anni, i gerenti di Finmeccanica hanno commesso grandi errori, ma hanno anche costruito un grande gruppo. Uno dei pochissimi che l’Italia ha. Gli errori hanno trovato plastica evidenza nel bilancio 2011 chiuso con oltre 2 miliardi di perdita a causa delle svalutazioni di contratti, joint-venture e partecipazioni e anche a causa di un’insufficiente produttività. Ora il gruppo sta perseguendo un piano di ristrutturazione validato da McKinsey. Il personale verrà ridotto. Gli stabilimenti accorpati. Alcune partecipazioni cedute. Altre messe in partnership: in particolare l’Ansaldo Energia per il quale sono in corso negoziati con il Fondo strategico della Cassa depositi e prestiti mentre si fa avanti la Siemens, e l’Ansaldo Trasporti, che potrebbe attrarre la giapponese Hitachi o la China South Railways. È bene che questo piano venga completato. Meglio se concentrando nella holding un ferreo controllo sulle società operative, finora feudi di affari e consociazioni.
Il nuovo scandalo espone Finmeccanica a due vecchie e pericolose tentazioni. La prima tentazione è la conservazione dello status quo. A Genova, per esempio, politici, sindacalisti e perfino la Curia, sia pure con cardinalizia prudenza, osteggiano a priori il cambiamento anziché domandarsi, numeri alla mano, quale sia l’assetto proprietario più adatto a garantire le risorse per le due Ansaldo: se la Finmeccanica senza più soldi o una nuova, più ricca e focalizzata compagine. La seconda tentazione è la privatizzazione e l’immediata rivendita a pezzi del gruppo in omaggio a un pessimismo su questa società, comprensibile nell’uomo della strada ma imperdonabile in chi sa di fare così un piacere a Londra, Parigi, Berlino e Washington.
Per disinnescare gli opposti estremismi, Finmeccanica ha bisogno di riacquistare autorevolezza, e dunque di smarcarsi immediatamente dall’inchiesta. I pm devono poter lavorare. Gli eventuali beneficiari dei denari di Finmeccanica vanno smascherati. Ma l’azionista non può mettere la testa sotto la sabbia. Negli ultimi mesi tutti hanno notato uno stato di incomunicabilità tra i ministri di riferimento — da Monti a Di Paola, da Passera a Terzi e a Grilli che regge, da viceministro, il dicastero dell’Economia — e il capo dell’azienda. È una distanza che non va bene. È giunto il momento di non lasciare più sola Finmeccanica. L’azionista dica se ha fiducia in Orsi. Se sì, lo sostenga apertamente. Se no, lo induca a compiere un passo indietro, a salvaguardia della continuità dell’azienda e delle persone non sfiorate da nessuna inchiesta che a ogni livello vi lavorano. Ma forse, lo stesso Orsi dovrebbe riflettere se la sua resistenza, in linea di principio perfettamente legittima, sia utile alla società che pro tempore presiede o se non sia arrivata l’ora di un gesto unilaterale di responsabilità.
Massimo Mucchetti