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 2012  aprile 26 Giovedì calendario

Nel leggere un volume di qualche anno fa di Camillo Pavan sulla tremenda sorte dei trecentomila prigionieri italiani in Austria- Ungheria dopo lo sfondamento di Caporetto, e pensando all’armamentario retorico che continua a caratterizzare anche da parte di illustri accademici o di giornalisti apprendisti storici, quella che fu giustamente definita «l’inutile strage», sono portato a dedurre che l’Italia, a differenza di altri Paesi, non riesce a fare i conti con il proprio passato

Nel leggere un volume di qualche anno fa di Camillo Pavan sulla tremenda sorte dei trecentomila prigionieri italiani in Austria- Ungheria dopo lo sfondamento di Caporetto, e pensando all’armamentario retorico che continua a caratterizzare anche da parte di illustri accademici o di giornalisti apprendisti storici, quella che fu giustamente definita «l’inutile strage», sono portato a dedurre che l’Italia, a differenza di altri Paesi, non riesce a fare i conti con il proprio passato. Come dovrebbe essere noto, a differenza di quanto fecero Francia e Inghilterra, l’Italia rifiutò ai prigionieri di Caporetto, ma non solo, accusati ingiustamente di fellonia e tradimento, di inviare qualsiasi aiuto, tant’è che centomila di essi, in poco più di un anno, morirono di malattie e di fame. Questo perché il cibo mancava anche per la popolazione austro- ungarica. Ma non era finita: alla fine della guerra furono ammassati in veri e propri lager e molti di loro interrogati per verificare come e perché si erano arresi. Angelo Rambaldi angelo.rambaldi@ior.it Caro Rambaldi, H o dovuto abbreviare la sua lettera per ragioni di spazio, ma se vorrà parlare in altre occasioni del ruolo del re e di Giolitti, cercherò di risponderle. Oggi mi limiterò al tema principale: Caporetto. Premetto che conosco il buon lavoro di Camillo Pavan e la certosina pazienza con cui ha saputo dare voce, sul tema della Grande guerra, a uno straordinario numero di protagonisti, comparse e testimoni. Ma i suoi libri, perché così ha scelto l’autore, sono inevitabilmente aneddotici. La questione di Caporetto può e deve essere affrontata in un contesto più largo tenendo d’occhio, in particolare, i valori e lo stile militare dell’epoca in cui gli avvenimenti sono accaduti. Non possiamo fissare la nostra attenzione su Caporetto escludendo dal nostro spazio visivo, per esempio. il massacro di Verdun, la catastrofica battaglia di Chemin des Dames (aprile 1917) voluta dal generale Nivelle (350.000, fra morti e feriti, solo nel campo alleato), gli ammutinamenti in massa delle settimane seguenti e la giustizia sommaria impartita dai tribunali militari francesi. In quasi tutti i Paesi che parteciparono al conflitto questi avvenimenti sono stati studiati attentamente e criticamente, ma soltanto in Italia una grave sconfitta ha pressoché oscurato le altre fasi del conflitto ed è diventata la compiaciuta metafora di tutti i difetti nazionali. Anche la sua lettera, caro Rambaldi, dimostra che Caporetto è la quotidiana pillola di pessimismo con cui gli italiani irrobustiscono una patologia molto nota nei dibattiti ebraici: l’odio di sé. Insieme alla lettura dei libri di Pavan le consiglio quindi Caporetto, una battaglia e un enigma, pubblicato nel 1984 da uno scienziato nucleare, Mario Silvestri, che fu con Felice Ippolito il padre del nucleare italiano, ma ebbe anche uno straordinario talento storiografico. Silvestri non fa sconti a nessuno. Mette in evidenza l’arroganza dei grandi comandi, le bugie e le omissioni dei maggiori responsabili, la miopia dei piani di battaglia, lo sbandamento di molti reparti. Ma non dimentica coloro che hanno saputo reagire, organizzarsi, combattere e l’impegno con cui il nuovo governo di Vittorio Emanuele Orlando corse ai ripari. Nella storia di Caporetto non vi è soltanto la disfatta; vi è anche il soprassalto di energia e di caparbia con cui l’Italia seppe reagire e prepararsi a una nuova prova.