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 2012  aprile 26 Giovedì calendario

N el decimo secolo dopo Cristo, quando sul Giappone si estendeva la fiorentissima ed elegantissima civiltà della famiglia Fujiwara, il Paese era diviso in due parti

N el decimo secolo dopo Cristo, quando sul Giappone si estendeva la fiorentissima ed elegantissima civiltà della famiglia Fujiwara, il Paese era diviso in due parti. Da una parte dominava il mondo virile della politica, della feudalità e della burocrazia, dove si parlava esclusivamente cinese. Dall’altra c’era il pettegolo, frivolo e sottile spazio femminile, che parlava e scriveva soltanto giapponese. La bellezza femminile aveva moltissime forme. Era, in primo luogo, la natura: la sacra natura. Le eleganti dame giapponesi trascinavano con sé i grandi dignitari a osservare la luna, che trapelava dalle nuvole e dalle nebbie: contemplavano i fiori dell’albero di susino, i ciliegi di montagna, gli alberi di pino, le oche selvatiche che attraversavano starnazzando il cielo, la neve folta che d’inverno circondava le case; e luna, fiori di susino, fiori di ciliegio, nuvole, nebbie, neve, oche selvatiche formavano un quadro perfetto, che sembrava composto dalla incontaminata mente umana. Alle dame, la natura non bastava. Volevano creare altre nature. Sulla carta folta e profumata che veniva da lontano, dipingevano coi pennelli poesie squisite: preparavano vesti intonate alla stagione autunnale, o sete trasparenti; e suonavano musica sui diversi strumenti, versando lacrime di commozione. I viaggiatori che giungevano dalla Cina avevano l’impressione che questi oggetti quotidiani avessero un’importanza molto più grande dei sentimenti del cuore; forse non erano altro che i sentimenti del cuore, divenuti musica e pittura. Vista dalle dame di corte giapponesi, la vita non era altro che una educazione dello spirito. L’amore era l’arte suprema: contemplare una notte di luna, ascoltare il suono di una cetra, riprendere coi versi le immagini e i versi di un’altra poesia, dissolvere la realtà nel sogno e il sogno nella realtà: praticare l’Eros senza parlarne o sfiorandolo appena con le parole. Di una cosa le dame non parlavano mai: l’attività politica apparteneva alle esclusive qualità virili, quelle di cui si parlava soltanto in cinese. Se un evento politico fosse penetrato nel mondo adorato dalle donne, ogni raffinatezza e squisitezza psicologica si sarebbe dissolta. Nei grandi romanzi scritti dalle dame di corte, i cosiddetti monogatari, ogni rovinoso battito del tempo viene cancellato con un rigore ineguagliabile. Passano decenni, trascorrono generazioni, e noi abbiamo l’impressione che siano battiti leggerissimi, o tocchi d’eternità. Il capolavoro dei romanzi femminili giapponesi è La storia di Genji di Murasaki Shikibu, vissuta nel decimo secolo. È un libro così bello, così complesso, così ramificato, che debbo scusarmi con i miei lettori: qualsiasi cosa possa dire della Storia di Genji, sarà crudelmente elusiva e insufficiente. Non posso che raccomandarne la lettura come potrei raccomandare quella del Sogno della camera rossa o dell’Evgenij Onegin o di Guerra e pace. Della figura di Murasaki Shikibu sappiamo pochissimo. Qualcuno dice: «I giapponesi amano paragonare Murasaki al fiore del susino, perfetto, bianco e immacolato»; oppure: «Di aspetto piacevole ma ritroso, sfuggente, solitario, orgoglioso, amante di romanzi, vanitosa e poetica, era abituata a guardare gli altri dall’alto in basso». Molti anni or sono la casa editrice Einaudi aveva pubblicato la bella e incompleta traduzione di Adriana Motti, desunta da quella inglese di Arthur Waley. L’edizione che sta per uscire (sempre da Einaudi) ha il vantaggio di essere tradotta direttamente dal giapponese, e di essere accompagnata da un ricco apparato di note, che commentano specialmente le bellissime poesie, che ora i personaggi improvvisano, ora scrivono con la loro incantevole calligrafia. Nel cuore di questo romanzo della bellezza sta il principe Genji, sovranamente bello e affascinante, che appartiene alla famiglia imperiale. Decine di imperatrici, di principesse, di grandi e di piccole dame frequentano il suo letto, che le accoglie con infinita dolcezza e una specie di candore e quasi di noncuranza. Genji non ha nulla del don Giovanni o del libertino: assomiglia piuttosto a un androgino; «Era così bello che si poteva quasi desiderare di vederlo in vesti femminili». Qualsiasi cosa dica o faccia, una parola lo accompagna di continuo: «inquietante». Ma perché è inquietante? Per l’alone quasi eccessivo di fascino, di dolcezza e di candore, che lo avvolge? «La sua bellezza — commenta la Murasaki — rende quasi impossibile distoglierne lo sguardo». Genji è inquietante sopratutto per il suo rapporto con gli altri mondi: da un lato le remote vite precedenti incombono su di lui, dall’altro il futuro egualmente remoto e infine, attimo dopo attimo, l’aldilà vorrebbe suggerlo e trascinarlo nel suo spazio. Se ama le donne, non lo fa mai con eccesso, ma piuttosto con una tenerissima compassione. Le ama perché vede riflessa in loro una parte di se stesso: l’effimero, il fragile, il vano, il fuggiasco; qualcosa che è insieme simile «alla rugiada del mattino» e «alle erbe galleggianti sull’acqua». Così insegue in loro questo lato profondo della propria natura. Apre loro le proprie braccia: esse vi si tuffano, sempre più affascinate e innamorate; e mentre le figure si moltiplicano, un impulso spinge a dissolvere in una morbidissima nebbia tutte le sensazioni, tutti i sentimenti, tutti i pensieri, tutti i colori. L’esistenza di Genji è percorsa da un grande fiume d’amore incestuoso. Quando è ancora bambino, la madre, concubina imperiale, muore, e Genji non saprà mai vincere il desiderio, la nostalgia, il rimpianto verso la sua figura malinconica. Per tutta la vita, non farà che cercare riflessi e prolungamenti di quell’ombra scomparsa. Appena conosce la principessa del Padiglione del Glicine, destinata a diventare imperatrice, vi trova l’eco della madre: una profondissima somiglianza; vive vicino a lei, ne ha un figlio, sebbene poi l’imperatrice lo rifiuti e lo allontani; mentre Murasaki avvolge d’ombra quest’impossibile nostalgia amorosa per la donna unica. Infine, conosce una bambina, in cui ritrova i lineamenti e l’alone della madre e della principessa. La educa, la coltiva: le insegna a dipingere, a scrivere, a suonare la cetra, a rispondere in versi: ama in lei la bambina e la ragazza che, a poco a poco, sta diventando donna; e vince i suoi primi rifiuti. «Alla luce della lampada — scrive la Murasaki — il suo profilo e i suoi capelli la facevano sempre più assomigliare alla principessa che tanti anni prima aveva preso il suo cuore». «Era quasi impossibile pensare — insiste — che si trattasse di due persone diverse». Alla fine, Genji sposa l’adolescente, carica di echi e di ricordi, e le dà il nome di Murasaki, lo stesso nome della misteriosa romanziera. Se ama due volte il riflesso della medesima donna, Genji non potrà vivere che di riflessi. Non contempla mai, diritta davanti a sé, l’immensa vastità e varietà dell’orizzonte: guarda di scorcio, attraverso grate, tende, finestre velate, che nascondono la realtà delle cose: guarda le immagini negli specchi; e tende a ignorare la luce del sole, perché la sola vera luce, per lui, è quella riflessa della luna, che appare e scompare, e di nuovo riappare e riscompare, tra le frange umide della bruma serale e nel tramonto morbido della notte. Questo è il mondo di Genji. Ma sembra che i riflessi non abbiano forza. Da tutte le parti si avanza la nostalgia, lo strazio, le lacrime, che bagnano le vaste maniche dei chimoni; e sopratutto l’immensa Malinconia, il cui nome viene ripetuto incessantemente, come se fosse l’unica sostanza del mondo immaginario e reale.