Pierluigi Battista, Corriere della Sera 26/4/2012, 26 aprile 2012
D i inedito c’è solo il neologismo, sgradevole e multiuso, di «antipolitica». Perché la storia dei «demagoghi» italiani deplorati dal capo dello Stato è un fiume sotterraneo di rancori, rabbie, malumori, paure e frustrazioni che accompagna stabilmente la vicenda politica dell’Italia repubblicana
D i inedito c’è solo il neologismo, sgradevole e multiuso, di «antipolitica». Perché la storia dei «demagoghi» italiani deplorati dal capo dello Stato è un fiume sotterraneo di rancori, rabbie, malumori, paure e frustrazioni che accompagna stabilmente la vicenda politica dell’Italia repubblicana. Furore «antipartiti», anziché «antipolitico». È meglio, si fa capire di più, è meno generico, non perdona le colpe storiche che il regime dei partiti si è trascinato per decenni. L’antipartitismo contro la presunzione di supremazia dei partiti: questo il conflitto duraturo e tenace che compone il dualismo più frequentato nella storia dell’Italia postfascista. Quando Beppe Grillo, con ogni probabilità il «demagogo» che incarna il bersaglio delle critiche di Napolitano, era solo un comico in erba, i partiti si arrabbiavano molto quando si osava adoperare il termine «partitocrazia». I partiti italiani, infatti, oltre che molto invasivi e dediti ad occupare con strafottente noncuranza la cosa pubblica, sono anche molto suscettibili. Quando i Radicali di Pannella parlavano di «regime partitocratico», i partiti reagivano come se si stesse oltraggiando la democrazia. I Radicali, pressoché solitari, organizzarono un referendum contro il finanziamento pubblico dei partiti e gli elettori di quegli stessi partiti quasi quasi aderirono in forme plebiscitarie a quel pronunciamento antipartitocratico. Anche allora i Radicali erano «demagoghi». Non avevano la sguaiataggine del grillismo, non erano forcaioli come Grillo, erano libertari a differenza di Grillo, ma erano considerati dei molesti sabotatori del sistema, trattati alternativamente con compatimento o con brutalità. Sabotatori «qualunquisti», ovviamente. «Qualunquismo» era infatti l’invettiva più frequentata da chi non sopportava che la critica del sistema dei partiti oltrepassasse la soglia del bon ton e della moderazione. L’Uomo qualunque di Guglielmo Giannini era considerato la sintesi di ogni nefandezza, l’omino stritolato dal sistema e dal fisco che era il marchio di quel movimento nato all’alba della democrazia postfascista veniva bollato come un pericolo. Quando nel ’46 l’Uomo qualunque fece il pieno dei voti, le blandizie si alternavano alle minacce. Persino Togliatti, l’homo politicus integrale e senza sbavature, ebbe parole di comprensione per attirare a sé la protesta qualunquista. Con poco successo, visto che nelle elezioni decisive del ’48, la gran massa dei voti qualunquisti confluì nel serbatoio democristiano, per paura del comunismo. Ma l’antipartitismo di «destra» conoscerà nei decenni successivi vari e multiformi canali di espressione. C’era la protesta che prendeva le forme della scelta monarchica, un misto di nostalgia per il passato sabaudo e di sordo risentimento verso la politica dell’Italia repubblicana. C’era l’opzione missina, come quella che deflagrò nei primi anni Settanta regalando alla Destra nazionale di Giorgio Almirante una messe di consensi che portarono il Msi a balzi straordinari nel Sud e in città importanti come Catania. C’erano fenomeni di «demagogia» dall’alto, all’Achille Lauro, un misto di paternalismo, autoritarismo, populismo che faceva della politica un oggetto di scambio e di commercio, un dare e avere che appagava insieme il senso d’appartenenza e il senso della materialità della politica: voto in cambio di scarpe e spaghetti. Altro che democrazia fondata sui partiti. La sinistra antipolitica, invece, ha sempre voluto dare alla sua demagogia un senso di superiorità morale del tutto assente dal qualunquismo destrorso, più pronto a glorificare l’uomo comune, il piccolo schiacciato dal grande, l’italiano medio lontano dai riti tortuosi e bizantini della politica. Dopo il fallimento del compromesso storico, progetto di alta politica tutta impastata di razionalità e orgogliosa del ruolo primario della pedagogia dei partiti, gli ultimi anni della vita di Enrico Berlinguer furono mossi dal richiamo della «questione morale» e sulla delegittimazione del ruolo degli altri partiti, tutti equiparati, con l’ovvia eccezione del Pci, a nuovi e voraci «comitati d’affari». Il popolo eccitato dalla visione dei potenti dei partiti ghigliottinati dalla rivoluzione giudiziaria di Mani Pulite fu anch’esso un’esplosione di umori antipartitocratici. Lo stesso termine «partito» divenne una parolaccia e infatti i partiti diventarono movimenti, cartelli, carovane, gruppi dove la parola «partito» doveva sparire per non incorrere nell’ira «demagogica» del popolo che oramai amava molto più i magistrati angeli vendicatori che i politici di Roma. Roma, appunto. La Roma ladrona da disprezzare nel nuovo e impetuoso movimento demagogico che nelle province del Nord si lasciava trascinare dalle parole incendiarie di Umberto Bossi, il guerriero che allora non teneva famiglia e che strutturò in un partito solido e compatto un movimento di cui nei Palazzi romani si preconizzava, come al solito sbagliando, la rapida estinzione. I partiti, in effetti, hanno sempre avuto la caratteristica di accorgersi con grande ritardo dei terremoti «antipartitocratici» che con ostinata regolarità hanno costellato la vita repubblicana. Non si sono mai accorti di essere troppo grandi e troppo intrusivi. E quando Giuliano Amato osservava che il regime dei partiti assomigliava molto al modo, beninteso pluralistico, con cui la società italiana aveva cominciato a dipendere da un partito, stavolta unico e solo e dittatoriale, come quello fascista, i partiti e i loro ideologi come al solito si offesero. Grandi e grossi, e sempre suscettibili. Si capisce che, contro di loro, i «demagoghi» hanno spesso buon gioco.