Tim Parks, Domenica-Il Sole 24 Ore 22/4/2012, 22 aprile 2012
ESSERE SAZI A METÀ LIBRO
«Ma signore» – osservò Samuel Johnson, beffardo, a qualcuno che voleva tanto sapere se aveva terminato un certo libro, «Ma lei, i libri, li legge fino in fondo?». E noi? Leggiamo fino all’ultima pagina? E se sì, siamo davvero quei poveri sprovveduti, a sentire Johnson, per aver l’abitudine di finire i libri?
Schopenhauer, che aveva riflettuto a lungo sulla lettura, si schiera con Johnson. La vita è «troppo breve per i brutti libri», ci dice, e «qualche pagina» è più che sufficiente per poter elaborare «una stima provvisoria della produzione di quell’autore». Dopo di che, ognuno ha il diritto di gettare la spugna quando meglio crede. Ma non mi interessa il nostro atteggiamento verso i libri brutti. Mi sembra ovvio che il lettore esperto sappia già quanto tempo concedere a un libro prima di decidere se non sia il caso di chiuderlo una volta per sempre. Sono solo i giovani, ancora aggrappati a quel senso del dovere inculcato loro da genitori ansiosi, che si ostinano ad andare avanti anche quando non provano piacere.
«Ho sedici anni» – commenta un ragazzo sconsolato su un sito web di recensioni – «e ho letto questo libro conserviamo l’anonimato dalla prima pagina all’ultima, fidandomi delle recensioni che lo dichiaravano ottimo. Non lo è. Mi piace leggere e di solito finisco tutti i romanzi che comincio, e solo per la mia decisione di non arrendermi mai ho finito anche questo, ma avrei fatto molto meglio a fermarmi prima». Un lettore come questo va incoraggiato a non mettere in gioco l’autostima quando si tratta di finire un libro oppure no, se non altro perché più libri brutti finisci, meno tempo avrai per quelli belli.
Ma cosa dobbiamo dire di quei libri belli? Perché certamente Johnson non si riferiva solo a quelli brutti. Dobbiamo finirli a tutti i costi? Un libro bello è per definizione uno che abbiamo letto fino in fondo? Oppure ci sono occasioni in cui si può interrompere la lettura di un libro prima della fine, magari anche a metà strada, e lo stesso pensare che era un bel libro, persino eccellente, e che siamo lieti di aver letto quello che abbiamo letto, solo che non avvertiamo la necessità di finirlo.
Pongo questa domanda perché è quello che mi succede sempre più spesso. Sarà per l’età forse, o la saggezza, o la senilità. Non so. Comincio un libro. Mi piace tantissimo, eppure arriva il momento in cui so di averne avuto abbastanza. Non è che abbia smesso di apprezzarlo. Non mi annoia, non penso neppure che sia troppo lungo. È solo che non provo più alcun desiderio di continuare.
Ma in questo caso, posso comunque dire di averlo letto? Posso raccomandarlo ad altri e parlarne come di un ottimo libro? Kafka osserva che di là di un certo punto uno scrittore può decidere di concludere il suo romanzo in qualunque momento, con qualsiasi frase: è una questione puramente arbitraria, e difatti sia Il castello che America sono romanzi incompiuti, mentre Il processo viene sbrogliato con la fretta indecente di qualcuno che ha deciso di non poterne più. Anche Gadda agisce così: entrambi i suoi romanzi migliori, Pasticciaccio e La cognizione sono rimasti incompiuti; entrambi sono considerati classici, malgrado la trama complessa lasci presagire una risoluzione che non c’è.
Altri scrittori ricorrono a quella che io definirei la catarsi dello sfinimento: i loro romanzi si presentano come esperienze dense ed estremamente impegnative che giungono alla fine quando scrittore, lettore e addirittura personaggi si sentono ormai sfiniti, non ce la fanno più. Il primo esempio che mi viene in mente è il DH Lawrence di Donne innamorate, ma penso anche a Elfriede Jelinek, Thomas Bernhard, Samuel Beckett e alla meravigliosa Christina Stead. La narrativa di Beckett si accorcia sempre di più, si addensa sempre di più, anticipando via via il punto di sfinimento. Tutti questi scrittori, a mio avviso, nel suggerire che, oltre un dato punto, il libro potrebbe concludersi in qualunque momento, convalidano l’idea che un lettore potrebbe anche decidere da sé, senza sminuire in nessun modo l’esperienza della lettura, dove smettere (penso alla Recherche, di Proust o a La montagna magica). Tra le reazioni più strane a un mio romanzo – proprio al più lungo, com’era prevedibile – ricordo quella di un collega scrittore che mi scrisse per esprimere il suo apprezzamento. Una lettera del genere, ovviamente, è lusinghiera per l’amor proprio e stavo già per appuntarla sul mio medagliere quando lo sguardo si è soffermato sulle ultime righe del messaggio: non aveva letto le cinquanta pagine finali, diceva il collega, perché era giunto a un punto dove il romanzo sembrava, almeno per lui, compiutamente concluso. Naturalmente, sono rimasto deluso, e anche un po’ risentito. Mi prendeva in giro. Non era forse una critica feroce, farmi capire che mi ero dilungato inutilmente, addirittura per cinquanta pagine? Solo più tardi ho potuto apprezzare la sua sincerità. Il romanzo gli era sembrato bello, anche senza l’epilogo. Non era troppo lungo, solo che lui si era sentito appagato nel fermarsi prima.
E allora che ne facciamo della nozione dell’opera d’arte come un tutto organico, giacché stiamo parlando di libri con ambizioni letterarie? Dell’idea che non possiamo afferrare la sua forma finché non lo abbiamo letto nella sua interezza? E che ne è della questione dell’intreccio, trattandosi qui soprattutto di narrativa? Un romanzo con una trama ci obbliga a leggerlo fino in fondo, perché solo così l’epilogo del racconto potrà dare un significato retrospettivo all’intera opera. O così sostiene la critica letteraria. L’avrò detto anch’io in qualche recensione.
Ma questo non corrisponde alla mia esperienza di lettore. Ci sono romanzi, e non solo di genere, in cui la trama è l’elemento principale, il pungolo che ci costringe a girare le pagine. Dobbiamo sapere come andrà a finire. Ma raramente questi libri sono importanti per me. Ben presto comincio a saltare parole, poi interi paragrafi, perché l’urgenza dell’intreccio fa venir meno l’attenzione alla scrittura: tutta l’intelligenza del romanzo sta nella storia, e la scrittura è soltanto un veicolo.
Eppure, anche con questi romanzi, in cui la trama costituisce il piacere principale, ben di rado l’epilogo ci soddisfa, e se il libro ci piace e lo suggeriamo ad altri, il motivo non coincide quasi mai con la sua conclusione. Ciò che conta è il disegno della trama, le forze in campo e le tensioni che si sviluppano non la soluzione. Anzi, il massimo che si può sperare dalla fine di un buon intreccio è che non rovini quanto lo precede. Non mi dispiacerebbe una produzione di Amleto che finisse prima dell’esagerata carneficina finale, per lasciarci ponderare i tanti possibili sviluppi adesso che il giovane principe è tornato a Elsinore.
Sotto questo aspetto, vale la pena ricordare che non sempre le storie hanno avuto l’obbligo di uno scioglimento, né a mantenerne uno sempre uguale. Un tratto caratteristico della mitologia viva, ci spiega Roberto Calasso nelle Nozze di Cadmo e Armonia, era che le sue molte storie intrecciate avevano sempre almeno due epiloghi, e non di rado "contrapposti" – l’eroe muore, non muore; gli amanti si sposano, non si sposano. Fu solo quando il mito si tramutò in storia, per così dire, che si è cominciato a pensare che dovrebbe esserci una versione "giusta", e ci si è dimenticati delle alternative. Con i romanzi, gli epiloghi che trovo meno deludenti sono quelli che incoraggiano il lettore a credere che la storia avrebbe facilmente potuto prendere una svolta diversa. Chiudere un libro prima della fine, allora, significa riconoscere che per me la sua forma, la sua qualità estetica, sta nella costruzione dell’intreccio, non nella sua risoluzione, e, nei romanzi migliori, nella compenetrazione della scrittura in quella trama. Stile e trama, visione globale e dettaglio locale, affascinano insieme, in un groviglio inestricabile. Non appena la struttura è stata organizzata e la narrativa avviata, la necessità di un epilogo è uno sgradevole fardello, un fastidio, una rinuncia dolorosa a tante possibilità. Talvolta le cinquanta pagine di suspense con le quali tanti scrittori si sentono obbligati a concludere un romanzo mi sono sembrate una tortura psicologica, che mi costringe a pensare alla vita come a una macchina per produrre pathos e tragedia, giacché gli unici epiloghi che ci sembrano credibili sono, ahimè, quelli infelici. Mi domando se, allorché il poeta recitava qualche storia mitologica, al termine di un ricevimento ateniese per esempio, o attorno al fuoco del bivacco sulla costa norvegese, il pubblico non interveniva per reclamare questo o quell’epilogo, o semplicemente per dire che stasera preferiva andare a letto presto. E mi ricordo che Alan Ayckbourn ha scritto varie commedie con finali diversi, lasciando agli attori, anche durante la recita, la scelta della versione da adottare. Mi chiedo inoltre se, scegliendo di non seguire un libro – per quanto eccellente – fino alla fine, il lettore non faccia un favore allo scrittore, esonerandolo dal compito ingrato e in qualche modo assurdo di sbrogliare una trama così attentamente imbrogliata. C’è qualcosa di funesto nella nostra soggezione all’idea della fine. Sono convinto che avrei un’opinione meno generosa di molti romanzi, se li avessi letti fino in fondo. E mi domando infine se non è venuto forse il momento di imparare, anche nei miei romanzi, a lanciare un segnale ai miei lettori, come a dire, da questo punto in poi, cari amici, siete liberi di mollare il mio libro come e quando volete.