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 2012  aprile 22 Domenica calendario

E SULLA SCRIVANIA AMORI E LAVORI

Eugenio Montale non ha una scrivania. Irma Brandeis, la Clizia delle Occasioni, venuta al Viesseux in visita il 15 luglio del 1933, lo trova in piedi, davanti a un leggio che gli arriva fino al collo e che sembra somigliare a quello che Hermann Hesse possiede nella sua casa di Tübingen. Anni dopo, il 14 febbraio del 1967, da tempo a Milano, Montale riceve undici bambini della scuola elementare di Seriate; portano in dono una pianta di limoni. La descrizione della casa di via Bigli è minuziosa: il soggiorno ha pareti gialle, le poltrone sono di paglia di Vienna, un piccolo zoo di vetro, posato su alcune mensole, comprende un elefantino, un gatto, un gallo. I libri sono trattenuti da due pigne fermacarte. Nessun accenno a una scrivania. Per scrivere Montale utilizzava foglietti riciclati, il retro di un biglietto del tram, una scatola di fiammiferi.
Nel racchiudere in una frase il ritratto di Vincenzo Cardarelli, Orio Vergani scrive: «Uomo che non ebbe mai una scrivania» e alla domanda «ha una scrivania?» Truman Capote risponde: «Sono uno scrittore totalmente orizzontale. Non riesco a pensare se non sdraiato, sul letto o sul divano». Alberto Moravia scrive Gli Indifferenti a letto. Il 6 dicembre del 1933 Montale manda una copia autografata del romanzo a Irma Brandeis: New York 53 west 12th Street.
Nel dicembre del 1938, Montale è costretto ad abbandonare la direzione del Viesseux. Negli stessi mesi il suo amico Carlo Emilio Gadda, lascia Firenze, ritorna a Milano. Vive in una stanza d’affitto, senza spazio. Non ha una scrivania, è costretto ad adattare un "boudoir" da signora; ha però fatto togliere lo specchio ovale, per non vedersi di continuo «effigiato mostruosamente».
Montale aveva promesso a Irma Brandeis un amuleto che la donna avrebbe dovuto portare sempre con sé, un oggetto simbolo che in forme diverse ritorna più volte nelle descrizioni delle scrivanie. Può essere un semplice sasso rotondo, come quello posato sul tavolo di Soffici, oppure l’effigie di un animale: Hamsun ha un ragno di metallo, Papini e Julien Green un piccolo elefante, Kenzaburo Oe un riccio bianco e marrone e sulla mensola, vicino, una rana lunga sei cm in terracotta e carta acquistata vicino alle rovine di Borobudur, in Indonesia. In alcuni casi si aggira un animale vero e proprio: un gatto percorre il piano di lavoro di Anna Banti e Maria Bellonci, più gatti attraversano il tavolo di Paul Léautaud. I camerieri del caffé Giubbe Rosse di Firenze avevano adottato un gatto, si chiamava Carlo Emilio.
L’oggetto simbolo che Italo Calvino farà coincidere con un’intera città («la mia scrivania è Parigi») è in molti casi la testimonianza più forte della propria vita; si riallaccia ad aspetti sentimentali: al Vittoriale, su un tavolo, dietro lo scrittoio, Gabriele D’Annunzio, ha una scultura in gesso che riproduce la testa di Eleonora Duse, il suo ricordo è così vivo che il poeta l’ha ricoperta con un velo. Giovanni Verga ha posato sul suo tavolo due riproduzioni in bronzo della mano della duchessa Dina di Sordevolo, le usava come fermacarte.
L’oggetto diventa in altri casi il ritratto del proprio dramma: Primo Levi ha sul tavolo una foto dei reticolati di Auschwitz di cui aveva conservato un pezzo di filo di ferro arrugginito; oppure più semplicemente riflette le proprie predilezioni: Camillo Sbarbaro teneva sopra la sua piccola scrivania un pacco di licheni. Un campionario del mondo – lo definiva. Giorgio Manganelli ha appoggiato sul tavolo un Pinocchio di legno con un naso di ricambio per quando non mente. La sola Brandeis non ha l’amuleto più volte promesso: «L’amuleto non l’ho potuto per ora trovare; il venditore è fallito» le scrive Montale il 27 dicembre 1933, mercoledì. Neanche il più efficace dei talismani salva dalla confusione. Ogni tanto si fa ordine: «oggi ho ripulito il mio tavolo» annota Virginia Woolf nel suo Diario il 13 luglio 1932, mercoledì. Oppure ci limita a constatare che l’accumulo porta un indubbio vantaggio: dà peso, quindi stabilità, al precario equilibrio di un piano di vetro poggiato su due cavalletti che costruisce la scrivania di Georges Perec e Bruce Chatwin.
La scrivania perfetta – persino il presidente degli Stati Uniti vi avrebbe trovato il posto adatto per ognuna delle sue pratiche – non può che appartenere all’immaginario; la si trova infatti al sesto piano di una casa di New York: appartiene allo zio di Karl Rossmann, la descrive Franz Kafka nel romanzo America.
Alla fine il caos si immobilizza. L’ultima testimonianza, alla morte dello scrittore, è il lavoro interrotto. Sul tavolo di Italo Svevo rimane la prima edizione di Senilità che fu rivista in prossimità di una riedizione. Sullo scrittoio di Jean Giono l’ultimo manoscritto attende un ulteriore rilettura. Nel novembre del 1975 le bozze di Un borghese piccolo piccolo di Vincenzo Cerami aspettano che Pasolini possa scrivere il risvolto editoriale. I fogli dattiloscritti di un’opera che Alberto Moravia non potrà ultimare si mostrano, a Enzo Siciliano accorso alla notizia della sua morte, crivellati dalle correzioni a pennarello nero con sui margini profili e facce, occhi sgranati, simili alle maschere africane che amava.
Un pacchetto di sigarette aperto, marca Benson & Hedges, nel caso di Leonardo Sciascia, non verrà mai finito. Eugenio Montale fumava Chesterfield: in una lettera a Irma Brandeis costituiscono, se unite a un buon termosifone, dei cocktail e qualche libro, un’idea di felicità.