Omero Ciai, la Repubblica 23/4/2012, 23 aprile 2012
Petrolio e commodity "drogano" la ripresa e adesso l’Argentina vuole ballare da sola – L’espropriazione di Ypf, la filiale argentina di Repsol, è il salto in avanti nella politica di Cristina Kirchner che molti avevano immaginato dopo la sua rielezione nell’ottobre scorso con il 54 per cento dei suffragi
Petrolio e commodity "drogano" la ripresa e adesso l’Argentina vuole ballare da sola – L’espropriazione di Ypf, la filiale argentina di Repsol, è il salto in avanti nella politica di Cristina Kirchner che molti avevano immaginato dopo la sua rielezione nell’ottobre scorso con il 54 per cento dei suffragi. Un consenso molto ampio, di dimensioni storiche, che ha dato alla Kirchner mano libera per proseguire sulla strada tracciata dal marito Nestor, morto improvvisamente in seguito ad un infarto alla fine del 2010. Dopo il default del 2001 nei due mandati, il primo di Nestor e il secondo di Cristina Kirchner, l’Argentina ha vissuto una lunga stagione di crescita economica, con un Pil positivo fra il 7 e il 9 per cento per otto anni consecutivi. Una crescita trascinata dalla forte domanda di materie prime della Cina e dal buon trend del principale socio economico di Buenos Aires, il Brasile di Lula e di Dilma Rousseff. La consistente svalutazione del pes, dopo la bancarotta del 2001, quando l’Argentina cancellò la maggior parte del suo debito estero 100 miliardi di dollari e banche e risparmiatori persero miliardi con la crisi "dei Tango Bond", favorì le esportazioni mentre l’appetito di Pechino faceva volare i prezzi delle commodity. Con soia, grano e carne i Kirchner reinventarono il paese e grazie al surplus di bilancio riuscirono a mantenere bassi, con i sussidi statali, i prezzi di luce, gas e benzina, dando respiro alla malridotta classe media argentina. Questa strategia, seguendo la quale sono stati nazionalizzati i fondi pensione, contenuti i costi dei servizi di base e varati programmi di assistenza ai più poveri, ha permesso a Cristina Kirchner di ottenere quel grande consenso che l’ha resa imbattibile alle presidenziali dell’ottobre 2011. Un uragano di ottimismo che ha fatto credere agli argentini di essere completamente immuni, vaccinati dalle conseguenze della crisi economica internazionale. Ovviamente non era così e la maggior parte degli osservatori economici puntavano il dito mesi fa sulla fragilità del ciclo economico argentino, molto dipendente dalla Cina e dal Brasile e minato da una inflazione sempre più alta (20% l’anno scorso, verso il 30 quest’anno) e da una endemica fuga massiccia di capitali verso lidi molto più sereni come le Borse e le banche americane. Nell’impossibilità di finanziarsi chiedendo prestiti all’estero con i buoni del Tesoro, l’Argentina ha tenuto sotto controllo il suo deficit statale soprattutto grazie alle tasse sulle esportazioni (il 35 per cento sulla soia). E quello con l’aristocrazia agraria, quando cercò di aumentare fino al 44 percento le imposte sull’agrobusiness di grano e soia, è stato l’unico conflitto dal quale è uscita sconfitta. Ma Cristina Kirchner sapeva benissimo quando è stata rieletta che la festa era già agli sgoccioli e che le previsioni di crescita per il 2012 e per il 2013 non superavano il 34 percento del Pil. Inoltre con un debito energetico triplicato nell’ultimo anno non avrebbe più potuto mantenere le sovvenzioni statali per luce, acqua e gas; e per contenere l’inflazione avrebbe dovuto limitare la crescita dei salari aprendo un conflitto proprio sui suoi fronti di riferimento e di sostegno politico: classe media e classe mediobassa. Così non è a caso che le prime decisioni del suo governo all’inizio del secondo mandato sono state rivolte al controllo dei cambi, per frenare la fuga di capitali, e a quello delle importazioni per contenere il deficit della bilancia commerciale. Scelte protezionistiche che hanno messo subito in allarme gli istituti internazionali, dal Fondo monetario alla Banca mondiale. Ma anche le grandi compagnie straniere (spagnole, italiane e americane) che hanno importanti investimenti in Argentina. I numeri macroeconomici di questi anni le danno ragione: in otto anni la disoccupazione è scesa dal 25 al 7 per cento; l’indice di povertà dal 57 al 30 per cento mentre coloro che vengono considerati completamente indigenti sono scesi dal 28 per cento della popolazione al 16 per cento. Ma le scelte protezionistiche hanno peggiorato la situazione. Notavano, per esempio, gli osservatori che il controllo sulle importazioni (bisogna chiedere permessi speciali al ministero del commercio per ogni prodotto importato) conduce all’asfissia: mancano, per esempio, medicine, ricambi di macchinario industriale, e perfino alcuni alimenti di base e molti accessori tecnologici. Siccome non c’è una produzione nazionale che possa rimpiazzare tutto ciò di cui il paese ha bisogno il risultato è infiammare l’inflazione: meno prodotti disponibili, prezzi più alti. Poi il controllo sui cambi per comprare dollari o euro c’è bisogno di un permesso governativo, oppure bisogna andare sul mercato parallelo dove costano molto di più ha raffreddato il mercato immobiliare. Nonostante le critiche degli esperti, alcuni dei quali temono che il modello protezionista e autarchico, con il freno alle importazioni, possa portare il paese ad un nuovo collasso, Cristina prosegue per la sua strada. C’è un dato politico importante ed è l’arrivo nelle posizioni chiave del governo di un gruppo di giovani teste d’uovo guidati da Maximo Kirchner, il figlio maggiore della "Presidenta". La loro convinzione è che non ci sono più certezze nei modelli da seguire, che quando ha obbedito come negli anni Novanta alle indicazioni economiche del Fondo monetario l’Argentina è stata spinta verso la catastrofe e che oggi il paese può "fare da solo". Nasce da qui lo scontro con Repsol, accusata di sfruttare le risorse e incassare profitti senza fare investimenti per la deficitaria politica energetica dell’Argentina, e l’esproprio di Ypf, la compagnia petrolifera privatizzata negli anni Novanta. Ora il paese del tango, di Messi e Maradona, rischia di essere isolato dal G20. E, come avvertono anche i maggiori economisti argentini, avrà sempre maggiori difficoltà ad attirare nuovi investimenti esteri. Una segregazione dal consesso globale che sembra non dispiacere affatto ai nuovi collaboratori di Cristina, convinti come sono che la globalizzazione dell’economia abbia completamente fallito i suoi obiettivi. La "Repubblica della soia" se ne va per conto suo. Anzi adesso spera che sia la ricca Cina a prendere il posto degli spagnoli all’interno della compagnia petrolifera espropriata. Ma non con la maggioranza del pacchetto azionario che, nell’idea della Kirchner, deve rimanere a Buenos Aires e magari, in futuro, fornire una parte di quel flusso di denaro indispensabile per i programmi sociali a favore di poveri e classe media. Futuro, appunto. Dietro all’esproprio infatti ci sarebbe l’ultima scoperta di nuovi giacimenti di petrolio in un’area denominata "Vaca Muerta", nella provincia di Mendoza. Giacimenti importanti che potrebbero, se sfruttati, rendere l’Argentina addirittura autosufficiente, oltre che "sola".