Massimo Gaggi, CorrierEconomia 23/04/2012, 23 aprile 2012
FINANZA E CRISI: SE I PROTEZIONISTI RIALZANO LA TESTA
Non sarà un caso se nella lista dei 100 uomini più influenti del mondo redatta dalla rivista «Time» — dalla quale, oltre a Nicolas Sarkozy, sono spariti (o non sono entrati) Vladimir Putin e David Cameron — è entrato trionfalmente il capo della Banca centrale europea, Mario Draghi. I meeting di primavera del Fondo monetario internazionale e della Banca Mondiale, un’occasione per riunire i ministri finanziari del G-7 e del G-20 più che per concludere grandi accordi (quello per il «firewall» a difesa dell’euro avrà la sua consacrazione a giugno, al G-20 dei capi di Stato e di governo, in Messico), hanno offerto spunti non molto tranquillizzanti sull’evoluzione della crisi finanziaria esplosa nel 2008. Mettendo a nudo la perdurante vulnerabilità del sistema bancario europeo che avrà presto bisogno di altre stampelle della Bce.
Le luci dei mesi scorsi (la ripresa americana, l’accordo europeo sulla crisi greca, i nuovi strumenti per affrontare l’emergenza debito nella Ue, il sostegno della Bce di Draghi alle banche) sono state offuscate da fattori negativi solo in parte previsti: i segnali di rallentamento che cominciano a venire anche dagli Usa, l’acuirsi, in tutto l’Occidente, delle difficoltà politiche che rendono difficile il varo di misure non popolari ma necessarie (elezioni francesi, poi americane). E poi i problemi di «governance» delle due grandi istituzioni multilaterali, con la Banca Mondiale in crisi d’identità e alla ricerca di un nuovo ruolo, mentre, al Fondo monetario, Christine Lagarde (priva dello spessore politico di Strauss-Khan) fatica a vincere le resistenze dei nuovi protagonisti — dalla Cina al Brasile — che condizionano un loro maggior contributo finanziario alla conquista di più ampi poteri decisionali nell’Istituto.
Ma l’allarme principale risuonato a Washington è quello che viene dalle banche: in primo luogo quelle europee che per recuperare stabilità, secondo il Fondo dovranno eliminare dai loro bilanci entro il 2013 «asset» per quasi 1.800 miliardi di euro e probabilmente ridurranno anche il credito all’economia almeno dell’1,5 per cento: notizia tutt’altro che confortante per un Continente già in buona parte in recessione. Del resto il sistema bancario europeo è ancora in rianimazione, ha già utilizzato buona parte della liquidità offerta dalla Bce e, con la pressione esercitata anche dagli Usa affinché la Banca centrale europea assuma un ruolo più attivo dal lato del sostegno alla crescita, toccherà ora a Draghi decidere se c’è spazio per nuovi interventi di sostegno senza pericoli per la stabilità.
Ma anche il sistema bancario anglosassone, impegnato in un ampio processo di ristrutturazione per recuperare equilibrio dopo gli eccessi degli anni scorsi, in molti casi sta invertendo la rotta rispetto all’internazionalizzazione che è stato il «mantra» degli ultimi decenni. Banche globali come Citigroup, Barclays e Hsbc, ma anche Goldman Sachs e Bnp Paribas stanno cominciando a cedere partecipazioni estere. Negli Usa, mentre la Wells Fargo si vanta di essere una banca «all american», Citi, coi suoi bilanci più zoppicanti, sembra orientata ad abbandonare il modello di banca globale: vende partecipazioni bancarie in India, Cina e Turchia e, in qualche caso, sta valutando la trasformazione delle filiali straniere in società separate.
Secondo diversi analisti, se la grande crisi mondiale non ha fin qui fatto riemergere vere barriere protezioniste per l’industria, un’insidia ulteriore per il commercio internazionale (e quindi per la crescita) può venire da questo fenomeno di «deglobalizzazione» della finanza: un processo forse giustificato e che può portare frutti di stabilità ma che, in un contesto di banche ancora assai anemiche, rischia di risospingere il credito entro recinti poco aperti alla concorrenza e, magari, protetti dai governi che, dopo salvataggi e nazionalizzazioni, possono essere tentati di introdurre nuovi vincoli amministrativi.
Massimo Gaggi