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 2012  aprile 23 Lunedì calendario

Adesso l’uscita dall’euro non è più una bestemmia - Il giorno elettorale di Hollan­de (e quello della Le Pen) potreb­be rappresentare il punto di svol­ta per il destino dell’euro

Adesso l’uscita dall’euro non è più una bestemmia - Il giorno elettorale di Hollan­de (e quello della Le Pen) potreb­be rappresentare il punto di svol­ta per il destino dell’euro. Non a ca­so il candidato socialista all’Eli­seo ( che pure dice cose inquietan­­ti su tasse e ruolo dello Stato) ha ri­servato le sue ultime parole prima del silenzio delle urne proprio al­la Bce e alla necessità che cambi la sua missione per garantire diretta­mente il debito degli Stati del­l’Unione. Ben svegliati. Nei «bu­giardini » delle medicine c’è sem­pre scritto che se il paziente peg­giora o ha reazioni indesiderate dopo l’assunzione del farmaco, occorre interrompere immediata­mente la cura. Nel caso dell’Euro­pa, messa in cura dagli eurocrati di cui Monti è organico rappresen­tante, abbiamo già assistito al pri­mo morto (la Grecia) e tutti gli al­tri «malati» continuano a peggio­rare. L’unica differenza con il re­cente passato è stato l’anestetico dei mille miliardi prestati dalla Bce. Il voto in Francia ci ricorda che gli Stati Europei sono ancora de­mocrazie e non possiamo sempre dare la colpa agli «altri». Dice be­nissimo l’economista premio No­bel Paul Krugman quando parla di «suicidio» dell’Europa. Non è importante quanto e cosa «im­ponga » la Germania nel suo uni­co legittimo interesse: se accon­s­entiamo a proseguire in cure sba­gliate avremo da biasimare solo noi stessi. Supponiamo però di vo­lerci ribellare e di volerci strappa­re la flebo del veleno dell’austeri­tà fiscale che ci sta uccidendo: il ge­sto non sarebbe senza conseguen­ze, quindi è meglio sapere bene cosa sono i pro e i contro. La que­stione è stata recentemente in­quadrata sia dallo stesso Krug­man che dal capo economista di Nomura, Koo. Tutti e due concor­dano con una premessa: impossi­bile proseguire così. Impossibile, assurdo e suicida. Chiedere a uno Stato con la disoccupazione al 23% come la Spagna ulteriore au­sterità è una bestialità talmente grande che dovrebbe aprire gli oc­chi anche ai ciechi, così come non ci voleva un profeta per prevedere che in Italia la stretta fiscale co­minciata con le manovre di luglio e proseguita da Monti avrebbe avuto come immediata conse­guenza la recessione. I due economisti poi cercano di analizzare le vie d’uscita e, seppu­re con differenti sfumature, le con­clusioni sono simili: o un cambia­mento a 180 gradi delle politiche economiche europee con meno tasse, più spesa e Bce garante del debito e disposta a tollerare l’even­tuale inflazione, oppure l’unico modo per salvarsi è l’uscita dalla moneta unica, trauma che però ri­solverebbe alla radice i problemi di competitività con una normale svalutazione, riavviando la cresci­ta. I medici del veleno tuttavia pre­dicano sventure: guai, disperazio­n­e e carestia attendono chi mai do­vesse osare mettere in discussio­ne il dogma dell’euro. Basterebbe vedere quale prosperità ha invece raggiunto Atene seguendo le loro ricette per seppellirli di risate, ma il timore dell’ignoto è comprensi­bile. Eppure è dimostrabile che i di­sagi (principalmente pratici) pa­ventati in caso di uscita dalla mo­neta unica possono essere minori di quanto si pensi. Certo, rideno­minare il debito in un’altra valuta è un default ma se l’alternativa a questo cambio di valuta fosse peg­giore, anche i creditori capirebbe­ro. Il timore più grande nel caso di uscita dall’euro, vale a dire la fuga dei capitali, è una lama spuntata, dal momento che il famigerato spread dimostra semplicemente come quella fuga sia già in atto. Della ricchezza degli italiani la parte immobiliare, con quasi 6.000 miliardi, rappresenta la pro­porzione maggiore del valore e (per definizione) non scappa. Il contante vale solo 100 miliardi, di più sono i depositi anche se in buo­na p­arte risparmio postale o vinco­lato, però non sono più trasferibili oltrefrontiera senza problemi, specialmente considerando i con­trolli pervasivi di cui ormai il go­verno può disporre. Non sono un problema né le azioni quotate (po­che, 80 miliardi, e in pratica beni reali) né le partecipazioni né i tito­li esteri (non sarebbero impattati dal cambio). Rimangono solo quindi i titoli domestici di debito. Qui però la fuga è già avvenuta e probabilmente il calo dei prezzi è già superiore al timore di cambio valuta. Difficile che uno venda un Btp a prezzi molto bassi temendo una svalutazione che probabil­mente sarebbe inferiore di quella implicita nei valori attuali. Anche il cambio della valuta fisi­ca sarebbe relativamente indolo­re, basterebbe una conversione al­la pari con la nuova valuta di con­tratti, stipendi e depositi (conver­sione, non cambio: a quel punto il cambio esterno con l’euro sareb­b­e definito dal mercato e ci interes­serebbe quanto ci interessa ora il cambio con il dollaro) per non do­ver nemmeno cambiare i cartelli­ni dei prezzi. Mantenendo provvi­soriamente gli stessi formati delle banconote non occorrerebbe nep­pure cambiare bancomat e mac­chinette. Disagi e rischi ci sono, tuttavia se sull’altro piatto della bi­lancia c’è la miseria dell’oppres­s­ione fiscale e dell’austerità reces­siva infinita è da irresponsabili non considerare l’alternativa.