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 2012  aprile 22 Domenica calendario

Il dottor Euro e i 40 milioni per la Città della speranza - Sulle fiancate sono dipinti un bimbo sti­lizzato col so­le al posto della te­sta, tre case colora­te, due montagne e la scritta «Fondazio­ne Istituto di ricerca pediatrica Città della speranza»

Il dottor Euro e i 40 milioni per la Città della speranza - Sulle fiancate sono dipinti un bimbo sti­lizzato col so­le al posto della te­sta, tre case colora­te, due montagne e la scritta «Fondazio­ne Istituto di ricerca pediatrica Città della speranza». Sul cofa­no è impresso un codice a barre QR: lo in­quadri con uno smartphone e sul display ti si apre la pagina internet cittadellaspe­ranza. org . Sotto i finestrini posteriori campeggia un verbo che nelle intenzioni del guidatore avrebbe dovuto spiegare tutto:«Io sostengo».Già,ma va’ a spiegar­le, certe cose, a chi ha la vista annebbiata dalla cattiveria e dal pregiudizio. Così, sa­bato scorso, sotto il tergicristallo del Mag­giolino bianco nuovo di zecca parcheg­giato in piazza Eremitani a Padova, Stefa­no Bellon s’è trovato questo biglietto scrit­to in fretta e furia con la biro: «Che vergo­gna viaggiare in maggiolone acquistato col denaro dei cittadini firmato un papà». Eppure riesce a sorriderne:«L’auto è mia, immatricolata a febbraio, l’ho pagata 25.000 euro. Pensavo d’essere stato chia­ro: “ Io sostengo”...Sottinteso:la Città del­la speranza. E dire che ho speso altri 500 euro per farmi incollare quegli adesivi sul­la carrozzeria». Omnia munda mundis , e il dottor Stefa­no Bellon, medico di famiglia che nella cit­tà del Santo assiste 1.200 mutuati, è un pu­ro, e un duro, abituato a confrontarsi con i tumori dei bambini, la sofferenza, la mor­te, figurarsi se si lascia impressionare dal­la stupidità. In effetti potrebbe chiamarsi dottor Euro. È un autentico fuoriclasse nel fund raising, cioè la raccolta di fondi da parte di organizzazioni non profit. In 18 an­ni, da quando esiste la Città della speranza e lui ne rappresenta il cardine, è riuscito a tirar su oltre 30 milioni di euro, a farsi dare altri 10 milioni di euro dalla Fondazione Cassa di risparmio di Padova e Rovigo, a di­v­entare un primatista veneto nella campa­gna del 5 per mille ( oltre 700.000 euro l’an­no), a inventarsi Il gusto per la ricerca che in otto edizioni ha raccolto 1.278.805 eu­ro, a conseguire due record entrati nel Guinness dei primati grazie a uno stuolo di atleti che hanno pagato per poter parteci­pare all’avventura. Il tutto senza percepi­re stipendi o rimborsi, sia detto a beneficio dei papà idioti che vergano fogli volanti per strada. La paga morale il dottor Bellon l’avrà, tutta intera e in un colpo solo, il 9 mag­gio, quando il presidente della Repubblica verrà a Padova per inaugurare il «suo» capolavoro: la Torre di ricerca. È un grattacielo di 11 piani, 20.000 metri quadrati di superficie, co­struito nell’area Cnr (Con­siglio nazionale delle ricer­che). Nella sua struttura esteriore,l’edificio spiega molto dell’idea che ci sta dietro. Ne è autore l’architetto Paolo Portoghesi,il quale,contagiato dal­l’entusiasmo del medico di base, è stato ben felice di regalargli il progetto. I primi sei piani ruotano di 5 gradi l’uno sull’altro in senso antiorario, i rimanenti in senso orario. L’immagine finale ricorda sia la doppia elica del Dna sia un angelo con le ali socchiuse a protezione dei bambini. Il grattacielo, costruito in tre anni, è co­stato 30 milioni di euro, ma il valore com­merciale è stimato in almeno 45 milioni, «perché siamo bravissimi a ottenere gli sconti e a costringere le imprese a lavora­reunpochino gratis per noi». Dal 1˚ otto­bre sarà la sede della Fondazione Istituto di ricerca pediatrica Città della speranza. Bellon, che ne è il direttore generale, coor­dinerà le attività scientifiche di 350 ricer­c­atori provenienti da tutto il mondo e scel­ti in base al merito. Qui verranno ospitati i laboratori dei dipartimenti di pediatria e di scienze oncologiche chirurgiche del­l’Università di Padova. «Sarà dei nostri Pa­olo De Coppi, lo scienziato e chirurgo di Conegliano, attualmente primario al­l’ospedale del bambino Great Ormond Street di Londra, diventato celebre nel 2007 per aver scoperto che si possono estrarre cellule staminali dal liquido am­niotico senza sacrificare gli embrioni umani. E probabilmente lavorerà con noi anche la virologa di fama internazionale Ilaria Capua, cui si deve la pubblicazione della sequenza genetica del virus respon­sabile dell’influenza aviaria». Bellon, 52 anni, ex azzurro che ha vinto 18 campionati nazionali di nuoto, riesce a occuparsi della Città della speranza nonostante come medico di base sia impegnato dalle 9 alle 13 in ambulatorio e dalle 14 alle 17 nelle visite a domicilio. E questo sareb­be niente. Deve anche accu­dire una figlia diciottenne che soffre di epilessia. «Sta­mane è al liceo scientifico, impegnata nel compito in classe di matematica. Da due anni non ha ricadute, è tornata persino a sciare. Ma c’è stato un periodo in cui per tre mesi ha avuto biso­gno di un cordone sanitario, guardata a vi­sta 24 ore su 24. È stato quello il momento in cui più mi è servito il mio motto nella lot­ta ai tumori infantili: mai mollare». Perché ha fatto il medico? «Dovrei risponderle: perché lo era mio pa­dre. In realtà la motivazione non è stata quella. Sentivo il bisogno di mettermi a di­sposizione degli altri, ecco». Suo padre era medico ospedaliero? «No, condotto. Come me. Ho ereditato una parte dei suoi pazienti. Si chiamava Antonio. Lavorava 24 ore su 24, sette gior­ni su sette, 365 giorni l’anno. Non ricordo d’aver mai fatto una vacanza con lui. An­che quando andavamo al mare a Jesolo, arrivava alla sera da Padova e ripartiva al­l’alba per farsi trovare in ambulatorio». Com’è nata la Città della speranza? «Per iniziativa di un privato, Franco Ma­sello, un imprenditore vicentino del ra­mo marmi. All’epoca, 1994, era ammini­­stratore delegato della Deroma, un’azien­da di Malo, leader mondiale nei vasi in ter­racotta. Suo nipote Massimo morì a 8 an­ni di leucemia acuta mentre aspettava il trapianto di midollo in pediatria a Pado­va. Allora per questi piccoli malati si pote­va fare ben poco, persino la loro sistema­zione in ospedale era precaria. Masello protestò col primario, il professor Luigi Zanesco. “Non ci sono soldi”, si sentì ri­spondere. “ Fasso mi”,replicò lui.Riunì le 10-12 fornaci che fornivano la Deroma e a ognuna chiese un contributo minimo di 10 milioni di lire. Raccolse i primi 250 mi­lioni. Altri 130 li trovò il luminare fra im­prenditori amici. E con quei quattrini nac­que la Fondazione Città della speranza». E poi? «Bisognava edificarla, questa Città della speranza. Masello coinvolse l’ingegner Gaetano Meneghello, fratello dello scritto­re Luigi, l’autore di Libera nos a Malo . “Dobbiamo costruire un ospedale per i bambini malati di cancro”,gli disse.Mene­gh­ello mise a disposizione l’architetto Giu­seppe Clemente, che lavorava nel suo stu­dio. Bussarono alle porte delle imprese della zona. Molte decisero di partecipare a costo zero. E così sorse la clinica di oncoe­matologia pediatrica, con una spesa di 12 miliardi di lire. Oggi i 26 posti letto, pur im­portanti, sono diventati un’inezia rispetto alla ricerca scientifica finanziata finora dalla fondazione con 25 milioni di euro». Per questo serviva la Torre di ricerca? «Esatto. Pochi sanno che già ora le diagno­si di tutte le leucemie­e di tutti i linfomi Ho­dgkin e non Hodgkin in età pediatrica sco­perti in Italia vengono eseguite a Padova. Non solo: siamo il centro di diagnosi e te­rapia anche per tutti i sarcomi e i tumori ra­ri che colpiscono i bambini in Europa. La Città della speranza s’è accollata i costi di gestione, 3 milioni annui. Solo per il tra­sporto dei campioni da tutta la penisola fi­no a Padova sborsiamo 50.000 euro l’an­no. Paghiamo persino i pasti per il nostro personale, 21 dipendenti più 6 contratti­sti a progetto che lavorano in ospedale. Ci aggiunga i reagenti chimici, le altre spese di laboratorio e di gestione, le tasse...». Le tasse? «Certo.Abbiamodovutopresentareunin-terpelloall’Agenziadelleentr­ateperotte-nerelariduzionedal20al10percentodel-l’Ivasututtequesteattivi àcheregaliamo all’Azienda ospedaliera di Padova.Quan­do Annamaria De’ Claricini, una pediatra friulana emigrata a Milano e affetta da una malattia ematologica dell’anziano, nel 2006 venne a sapere di questa abnor­mità, decise di lasciarci il 90 per cento dei suoi beni, 4,5 milioni di euro, vincolando l’eredità alla ricerca pediatrica. È stata la molla che ci ha spinti a costruire la Torre che sarà inaugurata dal capo dello Stato». Che cosa dirà quel giorno a Giorgio Na­politano? «Che il lavoro dei ricercato­ri restituisce vita alle gene­razioni future. Mi sembra il messaggio migliore, ades­so che il Nordest non è più la locomotiva d’Italia». Lei da chi è pagato? «Da me stesso. La fondazio­ne non ha mai riconosciuto nulla a nessuno, a parte il di­r­ettore generale e due segre­tarie. Per raccogliere i 3 mi­lioni di euro annui che so­stengono le nostre attività non spendiamo mai più del 3 per cento. Il 90 per cento delle offerte vengono dai pri­vati. A Natale incassiamo 70.000 euro im­p­acchettando i giocattoli negli ipermerca­ti. Altri 40.000 regalando una pergamena, invece delle bomboniere, agli invitati che partecipano a matrimoni e battesimi». Poi c’è il Guinness dei primati . «L’iniziativa s’intitola 24H for children .Fi­nora ci ha fruttato 110.000 euro d’iscrizio­ni. Nel 2010 abbiamo organizzato una staf­f­etta di nuoto della durata di 24 ore con 5.028 partecipanti, battendo il record di un college femminile sudafricano che era arrivato a 3.941. Nel 2011 altra staffetta di 24 ore con 4.531 podisti che si sono dati il cambio nei 100 metri su una pista in Prato della Valle, superando i 3.807 che aveva­no fatto la stessa cosa in Estonia. Quest’an­no, il 22 e 23 giugno, sempre in Prato della Valle, faremo 12 ore di corsa e 12 ore di nuoto insieme per entrare per la terza e quarta volta nel Guinness World Records». Poi c’è Il gusto per la ricerca . «Ho corteggiato per mesi Massimiliano Alajmo, chef tristellato Michelin delle Ca­landre di Rubano, e alla fine l’ho convin­to. Adesso ogni anno organizziamo un pranzo con 8 o 12 fra i cuochi più blasona­ti d’Europa. I grandi li abbiamo avuti tut­ti: da Michel Troisgros a Roger Vergé, da Sirio Maccioni a Gianfranco Vissani, da Fulvio Pierangelini a Heinz Beck, da An­nie Feolde a Massimo Bottura. I commen­sali non pagano mai meno di 500 euro a te­sta, ma nel 2006, al San Pietro di Positano, la quota minima è stata di 1.250 euro». Lei è bravissimo a raccogliere fondi, ma non si vergogna a fare la questua? «No,perché qui non va perso nulla,c’è tra­sparenza assoluta. Lei vuol sapere dov’è finito il suo euro? Viene a Padova e lo ve­de. Devo ammettere che non è sempre fa­cile. Quando nel 1993 organizzai la prima partita del cuore, andai a chiedere un con­tributo alle azi­ende che erano reclamizza­te ai bordi dello stadio Appiani di Padova. Molte mi risposero: “Che c’importa?Tan­t­o i nostri cartelloni pubblicitari sugli spal­ti li abbiamo già”. Ah sì? Due giorni prima dell’incontro di calcio mi sono arrampica­to fin lassù e glieli ho coperti uno per uno con i sacchi neri della spazzatura». Non si ferma proprio davanti a niente. «Approfitto della statura: sono alto 1 me­tro e 98. Le vede le telecamere che control­lano il cantiere della Torre di ricerca? Le ho montate io con l’aiuto di un altro volon­tario. Non mi tiro indietro né quando ci so­no da appendere gli striscioni promozio­nali né quando ci sono da allestire i gaze­bo in occasione degli eventi». Chi maneggia quattrini è sospettato di interessi personali. Non la spaventa? «Sì, tanto. Lo dico sempre ai miei ragazzi: ricordatevi che, per ogni amico trascina­to dalla nostra parte, ci facciamo due ne­mici. Ma si va avanti lo stesso». Quanti bambini vengono ricoverati ogni anno nella vostra clinica? «In media vediamo 150 nuovi casi, il 25-35 per cento dei quali provenienti da altre re­gioni italiane e dall’estero. Fino ai primi anni Settanta scampavano alle leucemie solo 10 bambini su 100. Oggi, fatta la me­dia di tutte le neoplasie infantili, siamo a una percentuale di sopravvivenza del 75-85 per cento a cinque anni dalla diagno­si. Ma io voglio arrivare a salvarli tutti». Vasto programma. «I peggiori sono i tumori cerebrali con me­tastasi. Lì siamo fermi a 40 anni fa, i nostri piccoli pazienti li perdiamo tutti. E poi ci sono le leucemie fulminanti, che spesso non ti lasciano nemmeno il tempo di fare la diagnosi. Quando con la chemiotera­pia e il trapianto di midollo regrediscono, poi sono in agguato le ricadute. La sfida è questa: debellare la malat­tia residua, raggiungere la matematica certezza che il cancro non si ripresenterà. Sarò contento solo quan­do riempiremo due treni speciali molto più lunghi di quelli che nel 2005 abbia­mo organizzato per porta­re in udienza da Benedetto XVI gli ex pazienti passati in questi anni dall’oncolo­gia pediatrica e guariti. Era­no ben 3.300, molti già grandi, sposati e con figli». Che cosa capiscono i bambini della lo­ro malattia? «Posso dirle quello che ci ho capito io. An­che nella condizione più tragica, non per­dono mai la caratteristica di essere bambi­ni. Vomitano ma giocano. Nel 2004 ho or­ganizzato per loro un concerto con Clau­dio Baglioni. Madri e infermiere in deli­quio. I bambini no, hanno continuato a di­segnare. I bambini non mollano mai. Un giorno ne ho visto uno scappare dalla clini­ca. Ha rigurgitato l’anima in giardino.Su­bito dopo ha ridato la mano a suo padre, dicendogli: “Papà, torniamo dentro”. Comprende adesso da chi ho imparato?».