JOHN TERBORGH, La Stampa 22/4/2012, 22 aprile 2012
L’ultima frontiera dell’umanità - Carol Mitchell, la dottoressa Carol Mitchell, alzò gli occhi dal suo lavoro e fu colpita dalla vista di undici uomini a piedi nudi in cammino verso l’edificio con il tetto di paglia in cui stava prendendo appunti
L’ultima frontiera dell’umanità - Carol Mitchell, la dottoressa Carol Mitchell, alzò gli occhi dal suo lavoro e fu colpita dalla vista di undici uomini a piedi nudi in cammino verso l’edificio con il tetto di paglia in cui stava prendendo appunti. Era sola quel pomeriggio, gli altri ricercatori erano fuori, nella foresta circostante. La sua perplessità si trasformò in indignazione quando alcuni degli uomini cominciarono a raccogliere i vestiti stesi ad asciugare. Si precipitò fuori urlando e strappò i vestiti agli uomini, ora sconcertati quanto lei. Tornando in casa, sbattè la porta e depositò gli abiti sul tavolo. Carol era dentro e gli uomini fuori, intenti a scrutarsi a vicenda attraverso il graticcio che faceva da muro nel clima tropicale. Non sapeva che fare, ma era chiaro che la delegazione era venuta in pace, perché non portava armi – cioè archi e frecce. Infinite possibilità le passarono per la mente. Era chiaro che la stazione non era minacciata, così Carol decise che l’ospitalità sarebbe stata la miglior politica. Uscì dall’edificio e, facendo cenno agli uomini di seguirla, si diresse verso la sala da pranzo della porta accanto. Tirò fuori le tazze e versò «refresco» per tutti. Gli uomini, ora raccolti vicino alla mensa, bevvero solennemente. Essendo impossibile conversare, regnò il silenzio fino a quando il capo diede il segnale. Gli uomini si alzarono, ma prima di partire, si riunirono in un circolo ristretto a pochi centimetri dal viso di Carol e cantarono una canzone. Poi, uscirono in fila indiana dall’edificio e proseguirono il loro viaggio. Così entrammo in contatto con il popolo Yaminahua o Yora, che aveva terrorizzato i loro (e nostri) vicini Matsigenka per almeno una generazione. Era il 1985 ed eravamo nel cuore del Manu National Park, in Perù, nel Sud-Ovest dell’Amazzonia, in una stazione biologica agreste dove conduco ricerche dal 1973. Per quanto possa sembrare incredibile, ci sono ancora esseri umani «selvaggi» che vivono in alcuni degli angoli più remoti dei Tropici. La maggior parte sono nei dintorni del Rio delle Amazzoni, nelle regioni di confine del Brasile, in particolare nel vicino Perù, dove si presume ci siano almeno 15 gruppi incontattati. Al di fuori del Sud America, gli umani rimasti del tutto isolati si trovano nelle isole Andamane e nella provincia indonesiana della Papua occidentale (la metà Ovest dell’isola della Nuova Guinea). «Mai contattati». In sostanza il termine si riferisce alle società umane che non hanno regolari rapporti con il mondo moderno, anche se potrebbero avere un contatto di secondo o terzo grado attraverso i partner commerciali o con chi parla la stessa lingua. Vivono con pochi o anche nessun manufatto salvo qualche machete o un’ascia acquisita attraverso il commercio. La maggior parte parla lingue che nessun altro comprende: sono isolati da barriere linguistiche, oltre che dalla barriera fisica della lontananza. In Amazzonia, i gruppi rimasti sono isolati da una terza barriera, quella della paura abietta derivante dalle orrende atrocità del periodo del boom della gomma. Questi eventi di cent’anni fa restano una memoria vivida, indelebilmente inscritta nella coscienza di tutti i bambini che vivono in isolamento. I popoli amazzonici isolati vivono da fuggitivi presso le più lontane sorgenti degli affluenti, spesso sopra le cataratte e oltre il punto dove anche una piccola piroga può passare, nel timore costante di essere scoperti e resi schiavi o uccisi dall’ uomo bianco. È così per i Flecheiros (il popolo delle frecce), che vivono alle sorgenti dei fiumi Itaquai e Jutai sul lato brasiliano del confine tra Perù e Brasile. Temuti dai loro vicini e noti tra gli stranieri per la ferocia immotivata, vivono isolati nei loro insediamenti. Come racconta Scott Wallace nel suo libro «The Unconquered», fu organizzata un’estenuante spedizione di 76 giorni attraverso la foresta per valutare lo stato e le condizioni del popolo Flecheiro. La spedizione era organizzata e guidata da Sydney Possuelo, fondatore e direttore del Dipartimento degli Indiani mai contattati del Funai (Fundacao Nacional do Indio), l’agenzia indiana del Brasile. Nelle remote regioni di frontiera del Brasile, i furti di terra sono regolarmente giustificati dalla pretesa che l’area non sia occupata. L’agenzia di Possuelo doveva dunque dimostrare la presenza di abitanti indigeni in zone in fase di sviluppo. Secondo i propri criteri, la spedizione è stata un successo. Ha mantenuto la rotta prevista e il calendario, ha documentato la presenza dei Flecheiros su una vasta area - senza effettivamente mai incontrarli - e tutti sono sopravvissuti. Ma che cosa ha davvero concluso? I Flecheiros stanno meglio ora che il pubblico è stato informato su di loro? La visione di Possuelo è che continueranno a vivere in isolamento fino a che, come i Yora in Perù, decideranno da soli di fare altrimenti. Wallace evidenzia la fatica di Sisifo di mantenere isolati gruppi umani. Devono essere protetti attivamente contro le incursioni di chi vuole la terra, la legna, l’oro e altro. I contadini brasiliani, molti dei quali non possiedono terra che possano chiamare propria, provano risentimento verso una manciata di indiani che ha dominio esclusivo su un’enorme «zona di esclusione» (dove tutti gli estranei sono esclusi per legge). La zona dei Flecheiros comprende una zona delle dimensioni dello Stato Usa del Maine e solo 4500 persone. L’attuale politica del Funai di isolare le persone incontattate in zone di formale esclusione è una politica di terza generazione. Le due precedenti sono state abbandonate, dopo aver fallito. La prima ebbe inizio con il maresciallo Candido Rondon, uomo carismatico e militare di grandi principi che considerava gli indiani come esseri umani degni di rispetto e di un trattamento civile. Il lavoro di costruzione delle linee telegrafiche lo mise in contatto con numerosi gruppi etnici da cui ottenne collaborazione con mezzi non violenti. Nel 1910 fu nominato direttore del Spi (Servizio di protezione indiano) e ebbe mandato d’integrare gli indiani nella cultura brasiliana. La politica di assimilazione naufragò con lui. Dopo Rondon, l’Spi cadde in un pantano di burocrazia, apatia e corruzione. La condizione delle popolazioni indigene in Brasile era così deplorevole che il Ministero dell’Interno nel 1967 nominò una commissione per indagare. Le 5000 pagine del rapporto, che descrivevano un incubo di omicidi, tortura, schiavitù, abusi sessuali e appropriazione del territorio portarono alla creazione nel 1970 del Funai, guidato da Claudio e Leonardo Villas Boas. Come Rondon, i fratelli Villas Boas erano carismatici, mediatici e solidali con gli indiani. Ma questa volta, la visione era diversa. Nel 1970, il Brasile stava cominciando a costruire la Transamazzonica, una vasta rete di strade: i suoi percorsi, progettati sulle mappe, attraversavano larghi tratti di terra inesplorata, patria di numerose tribù, molte incontattate. Se gli indiani che vivevano sul tracciato della Transamazzonica non fossero stati contattati e trasferiti, le conseguenze sarebbero state disastrose. I conflitti sarebbero stati inevitabili. Così le malattie - morbillo, influenza, malaria, dissenteria. Le persone che vivono isolate non hanno resistenza a tali malattie e il primo contatto con gli europei spesso si traduce in perdite demografiche superiori all’80%. Dopo di che, molte tribù cessano di esistere come entità organizzate. Per scongiurare queste orribili prospettive i fratelli Villas Boas fratelli organizzarono un programma d’emergenza, condotto da «sertanistas», coordinatori specializzati, per stabilire un contatto e poi pacificare e dislocare interi villaggi e tribù. La pacificazione fu perseguita offrendo beni, tra cui machete, asce, vasi di metallo, ami, fiammiferi, zanzariere e abbigliamento, il cui fascino era irresistibile. Ma l’acquisizione di alcuni o di tutti questi beni è un’esperienza trasformativa che rende il contatto irreversibile. L’insoddisfazione per la politica di pacificazione e il completamento del progetto Transamazzonica posero allora le basi per un terzo tipo di politica. La soluzione migliore, ne dedusse Possuelo, era lasciarli soli sul posto. Scoprire dove vivono, creare riserve per loro e tenere fuori il resto del mondo. Possuelo riuscì a convincere il governo a creare le cosiddette «zone di esclusione», dove le tribù potevano vivere secondo le loro tradizioni, senza il rischio delle armi o dai germi. Ma moralmente era la cosa giusta da fare? Alcuni miei colleghi antropologi risponderebbero di sì. Ma vediamo: qualcuno di noi vorrebbe tornare alla condizione ancestrale, pre-moderna? Pochi, forse nessuno, risponderebbero di sì. Vivere in isolamento significa vivere una vita breve e dura in assenza della medicina e nella più completa ignoranza della storia, della geografia, della scienza e dell’arte. I popoli da poco contattati che ho incontrato in Nuova Guinea come in Amazzonia erano grati per il contatto. Ma l’abisso culturale è ampio e profondo e non c’è un modo semplice per superarlo. Tre generazioni della politica del Funai hanno mancato di rispondere alla domanda su come aiutare in modo efficace le persone isolate a negoziare il passaggio alla vita moderna. Un nativo amazzonico non sa come muoversi nella società contemporanea. Parla una lingua non scritta ed è in possesso di competenze adatte alla giungla che sono di scarso valore nell’economia monetaria. Si aggiunga a questo, la tendenza pressoché universale delle società di frontiera di sfruttare e discriminare i membri di gruppi meno acculturati: l’ostracismo sociale, la demoralizzazione e l’alcolismo caratterizzano la terra di nessuno tra gli stati culturali. Eppure, a mio avviso, l’assimilazione offre l’unica opzione morale e duratura. Il divario culturale può essere colmato, ma solo per educazione. Questo potrebbe essere il punto di partenza per una politica di quarta generazione che aprirebbe nuove prospettive beneficiando delle conoscenze acquisite dalle esperienze di migliaia di amazzonici che hanno pagato con le loro vite gli errori del passato. (© The New York Times 2012 - Traduzio- ne di Carla Reschia)