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 2012  aprile 22 Domenica calendario

Jean Valjean da 150 anni in viaggio nelle fogne di Parigi - Guardiamoci dall’imitarlo, Victor Hugo

Jean Valjean da 150 anni in viaggio nelle fogne di Parigi - Guardiamoci dall’imitarlo, Victor Hugo. La sua prolissità ineguagliabile vuole ricordi, recensioni, saggi intensi ma brevi. Così ha fatto il numero di febbraio del mensile Lire per il centocinquantenario del romanzo Les Misérables, enorme escrescenza nell’epopea romanzesca inesauribile del secolo XIX. Gli scrittori di allora non amavano, e i loro lettori neppure, che il loro autore amato li piantasse troppo presto in asso. Uno di quelli che erano, nel lasciare i lettori impazienti di conoscere il seguito, abilissimo, fino al sadismo mentale, fu Fedor Mihailovic Dostoevskij. Ciascuno dei suoi capitoli termina con un’apparizione improvvisa che sembra destinata a cambiare tutto. Forse non è estraneo a questi montaggi stilistici, per la cattura dell’attenzione, proprio Victor Hugo, che in Russia tutti leggevano direttamente in francese. Hugo amava chiudere il capitolo con una sentenza aperitiva. La massima non aveva nulla di definitivo, agiva come chiave del capitolo successivo. Un esempio: «L’amore è una colpa; sia pure. Fantine era l’innocenza galleggiante al di sopra della colpa». Esempio di introduzione, in fine capitolo, ad un incontro decisivo: «La priora, seduta sull’unica sedia del parlatorio, attendeva Fauchelevent». Ma forse è così: in un romanzo il termine di un capitolo né termina né determina niente. Una classica chiusura aperitiva d’apparizione nei Demoni di Dostoevskij: «... qualcuno stava arrivando di corsa. Fece irruzione nel salone: ma non era Nicolaj Vsedolodovitch, era un giovanotto che nessuno di noi conosceva». Mia madre leggeva soltanto i giornali, e a volte un libro di edificazione. Eppure, bambino, mi parlava di Fantine, Jean Valjean, Cosette, Javert (personaggio esecrato come senza cuore) perché, immagino, aveva pescato emozioni in qualche traduzionaccia illustrata dei Miserabili . Il loro mondo (come quello di un altro romanzone lettissimo anche in Italia, e specialmente a Torino: L’Assommoir ) era Parigi XIX, occupante intellettualmente la Torino popolare che gli somigliava. (Prima del fascismo Torino era gemella ideale di Parigi; il regime la forzò ad essere Italia). Si leggeva molto, tra gli alfabetizzati, del peggio di Parigi, e anche del meglio, Hugo e Zola in testa. A Torino c’erano i passages , le gallerie, che tutte evocavano la Parigi di fine secolo, e l’unico modello per la Moda era quello parigino. C’era anche un gemellaggio di assomoir , perché Torino era città bevitrice e cirrotica. Ma alla popolarità del romanzo hugoliano anche le versioni cinematografiche contribuirono non poco. Ce ne furono più che vite di Gesù! Infatti - da strabiliare: siamo finora a 35 adattamenti (e riduzioni, si spera) di cinema di ogni Paese; 11 serie televisive; sei versioni in cartoni animati; un paio di drammi teatrali. Da oltre trent’anni, fa dei pieni a New York un music-hall che dev’essere dei più miserabili per qualità, incassando perciò dollari a palate. Ignoro se finalmente, oggi, in italiano esista una traduzione decente di questo micidiale capolavoro. Per un giovane volenteroso, un esercizio dei più avventurosi, che val bene una mala paga. Grandissima potenza della parola sprigionano due momenti in cui l’autore decisamente accusabile di noia è in stato di grazia: il poema della battaglia di Waterloo e la traversata di Parigi attraverso le fogne, di Jean Valjean. Epica pura e rivelazione del soggiacente senso di tutta quell’enorme foresta romanzesca come pellegrinaggio iniziatico in un mistero di salvezza che è proprio di ogni grandezza narrativa che si sia manifestata per trasformare lo svago della lettura in una illuminazione. Ci sono altri momenti, non quelli soltanto, squarci che inducono a pensare, e a non sprecarne l’occasione. Ma nei due che segnalo qui si può essere certi che il terreno non frana. Sulla traversata delle fogne, con annessa storia degli êgouts , dove oggi si viaggia in battello col segreto timore di non poter rivedere la luce dell’uscita (ma non è questa la metafora delle metafore della stessa esistenza umana?), avevo anni fa elaborato un progetto teatrale di katàbasis cloacale iniziatica che proposi al Piccolo di Milano e che non ebbe esito. No, certo, non sarebbe stata una passeggiata facile, in vista di un successo, da grandi sudori e trepidazioni, incerto... Ma è un debito che riconosco con Victor Hugo. E ho purtroppo dimenticato la fissazione in memoria verace del capitolo di Waterloo intitolato La Catastrofe . L’ultima armata napoleonicasi sbanda e fugge nel si-salvichi-può finale e infila uno dopo l’altro i villaggi dei dintorni, elencati in un crescendo fantastico di topografia emotiva, fino alla frontiera. Il magistrale capitolo (un po’ meno di tre pagine in tutto) mette in scena il grande Sconfitto del 18 giugno 1815, data del mondo: al cadere della notte, presso Genappe, Napoleone è appiedato, con la briglia del cavallo sotto il braccio, pensoso, sinistro, e sta tornando solo, smarrito, in direzione di Waterloo: «tentava di avanzare ancora, immenso sonnambulo di quel sogno crollato».