FEDERICO TADDIA, La Stampa 22/4/2012, 22 aprile 2012
“Ero un mito” L’altra metà degli 883 - Non ero più capace di condurre quella macchina, andava troppo veloce e in circuiti troppo difficili: Max mi aveva anche offerto il volante, ma ho avuto l’onestà di riconoscere di non avere abbastanza talento, e ho preferito così uscire di scena»
“Ero un mito” L’altra metà degli 883 - Non ero più capace di condurre quella macchina, andava troppo veloce e in circuiti troppo difficili: Max mi aveva anche offerto il volante, ma ho avuto l’onestà di riconoscere di non avere abbastanza talento, e ho preferito così uscire di scena». Verrebbe da rispondergli canticchiando «Come mai», ma ti spiazza la sua serenità e il fatto che non c’è neppure un velo di rimpianto nella voce di Mauro Repetto, “il biondino degli 883”, che dopo 18 anni da quando decise di mollare all’ apice del successo l’amico e socio Max Pezzali, racconta per la prima volta la sua storia, iniziata in una cantina di Pavia e approdata, per ora, all’ ombra della Torre Eiffel. «Ho preferito tacere in tutto questo tempo perché da quel pomeriggio del 1994 in cui dissi a Max che il giorno dopo sarei partito per Miami, non avevo mai più avuto l’occasione di chiacchierare con lui. Ci eravamo solo sfiorati durante un suo concerto a Milano. Poco prima di Natale invece, quasi per caso, ci siamo incontrati a Parigi, con le nostre famiglie: è stato un momento magico, in un istante ci siamo ritrovati gli amici che eravamo, con la stessa sintonia, la stessa voglia di condividere passioni, lo stesso piacere di confrontarci su quello che ci piace e ci fa stare bene: è bastato uno sguardo per cancellare 18 anni di lontananza e ritrovare il feeling di sempre. Max sapeva che me ne ero andato perché avevo bisogno di riposare, e quando un bambino dorme non lo si disturba: il non cercarmi in tutti questi anni è stata una fortissima forma di rispetto nei miei confronti e gli va tutta la mia gratitudine». Il sodalizio tra i due nasce sui banchi della terza liceo nella seconda metà degli Anni 80, e si cementifica nei pomeriggi trascorsi insieme nella noiosa routine di provincia. La musica è il pallino comune, e nel 1987 l’acquisto di una “Drum machine” porta la coppia a sperimentarsi con la musica elettronica. Si cimentano nel rap, e cercano di far ascoltare un loro pezzo a Lorenzo Jovanotti che già spopolava a Radio Deejay. Ma nelle mani di Claudio Cecchetto arriva anche una musicassetta con il pezzo “Non me la menare”. E’ il ‘91 quando si presentano a Castrocaro; nel ‘92 arriva il clamoroso successo di “Hanno ucciso l’uomo ragno”, bissato nel ‘94 dall’album “Nord sud ovest est”. Ed e lì che “l’883 che balla e basta” stacca la spina. «Era tutto troppo veloce per me; avevo bisogno di fare tabula rasa, e tutte le persone che mi erano vicine lo hanno compreso e accettato. Sono partito per Miami: volevo cercare la mia strada oltre oceano, volevo trovare una macchina che fossi in grado di guidare da solo. Ho frequentato la New York Film Academy, ho anche provato a realizzare un film e a produrre un disco negli States. Ma sono rientrato in Italia con le bobine sotto le ascelle, e la consapevolezza che bisognava darsi una calmata». Tornato a casa con i genitori, Mauro si iscrive all’Università e si laurea in Lettere. La madre, impiegata all’Ufficio provinciale del lavoro, gli segnala proposte di lavoro pescate qua e là. Una di queste riguarda “Disneyland Paris”. «Le metropoli mi hanno sempre sedotto come una bella ragazza, e così ho scelto Parigi. Ho inviato il curriculum e fatto le selezioni, senza svelare la mia vera identità: nel ‘99 vengo assunto come animatore nel parco, e con un abito western addosso mi piazzano a fare il cow boy. Sì, mi dispiace deludere chi ha messo in giro la voce che fossi a ballare dentro alla maschera di Pippo o Pluto, ero solo un semplice cow boy». Dopo quattro mesi il fato bussa alla porta di Repetto: al direttore del parco, che aveva studiato a Pavia, quel nome ricorda qualcuno e, facendo un veloce due più due, riconosce l’ex 883. Gli chiede perché passa le giornate vestito da sceriffo, quando le sue competenze potrebbero essere sfruttate meglio. «Da quell’incontro entro nella parte organizzativa di Disneyland e divento produttore di Special events, un ruolo di responsabilità che mi permette di mettere insieme la mia parte creativa e quella più manageriale». Nel frattempo si sposa con una ragazza francese, e nascono due bambini, a cui la nonna insegna a fischiettare “Hanno ucciso l’uomo ragno”: per dirsi totalmente felice manca però ancora qualcosa, ed è forse l’eco degli anni passati sui palchi che si fa risentire. «Sentivo il bisogno di mettermi in gioco, di usare il mio corpo e la mia voce per narrare storie capaci di far piangere, far ridere e far pensare: ed è nato così “The Personal coach”, uno spettacolo completamente autoprodotto e senza promozione che non conta più 20/30 spettatori ogni sera, ma che mi sta dando tante soddisfazioni». In programma al Théâtre Essaïon, teatro del circuito underground parigino, l’ex biondino ha ancora una capigliatura da far schiattare d’invidia l’amico Max, e si mostra in splendida forma in questo surreale monologo dove si immagina delle fantomatiche elezioni, da Marilyn Monroe a Jim Morrison, passando per Napoleone, Al Capone e l’attore porno John Holmes. «Cerco di trasmettere il limite dei politici attuali: è tutto troppo complesso e non basta più dare domande generiche. Bisogna dare risposte precise e problemi specifici: la figura tradizionale del politico è sorpassata. C’è bisogno di persone più preparate e più vicine alla gente e alla realtà, come dei personal trainer. Tema di stretti attualità, visto che oggi si vota in Francia: io posso votare solo per le amministrative, ma camminando per strada sento la vibrazione di un forte desiderio di cambiamento».