Paolo Isotta, Corriere della Sera 24/4/2012, 24 aprile 2012
Avrei dovuto scrivere una recensione della Tosca andata in scena l’altro ieri sera alla Scala; sono costretto invece a fare un bollettino di guerra annunciante una clamorosa sconfitta
Avrei dovuto scrivere una recensione della Tosca andata in scena l’altro ieri sera alla Scala; sono costretto invece a fare un bollettino di guerra annunciante una clamorosa sconfitta. Gli interpreti sono stati salutati da un subisso di fischi e grida ostili mentre una parte del pubblico (recita fuori abbonamento, biglietto omaggio) caninamente applaudiva: debbo credere che i plaudenti ascoltassero il capolavoro di Puccini per la prima volta, senza conoscerne nemmeno il soggetto e il libretto di Illica e Giacosa. La Tosca pone peculiari difficoltà agli interpreti; la prima è che si tratta di un’Opera volutamente contrassegnata di tratti veristici (Puccini non si risparmia l’andar giù duro) i quali vanno affrontati con cognizione di causa e mano leggera: sennò si cade subito nel truculento, giusta il dramma originario di Sardou. La seconda è che il ruolo principale è quello del barone Scarpia, non dei nominali protagonisti Tosca e Cavaradossi; e che le parti dei comprimarî sono scritte da Puccini con infinita sottigliezza, onde da essere ciascuna assolutamente infungibile. Farò un esempio: il Sacrestano. Dar vita a costui (qui Alessandro Paliaga) vuole moltissime integrazioni nel non scritto, parte delle quali discendenti da un’ininterrotta tradizione; si tratta di tutta una serie di vezzi e tics che non vanno esagerati fino a cadere nel comico assoluto, il che talvolta accade, ma che sono comunque il sugo della parte: leggere la quale alla lettera e senz’altro produce un inutile non senso: il che si è verificato. Del pari per Sciarrone (Davide Pelissero) e Spoletta (Massimiliano Chiarolla); l’«interno» del Pastore era addirittura una donna (Barbara Massaro) invece che una voce bianca della tarda infanzia. E questa è solo una parte delle mie osservazioni. Ne scaturisce una Tosca del più volgare verismo, con un ricorso inaccettabile al «parlato» e «corone» lunghe ciascuna quanto un giorno, senza osservanza veruna dell’intonazione e con voce deplorevolmente «ballante»: il maestro Nicola Luisotti ricorre a tutti i trucchi dell’arte per stargli dietro. Il Vissi d’arte di Martina Serafin è un vero strazio, e da lì sono incominciati i fischi e i buu. Il che ci regala una Tosca sfasciata da tutte le parti: che cos’è, Dio mio, il I atto! Quanto allo stesso Luisotti, dirige con bacchetta così pesante da coprire del tutto il palcoscenico con l’orchestra, il che si rivela, omnibus perpensis, un pietoso velo. A proposito di Cavaradossi, Marcelo Alvarez, indisposto, è stato sostituito all’ultimo istante da Lorenzo Decarlo, onde non commenteremo affatto la prestazione di costui. Scarpia, George Dagnitze, è volgarissimo. Contemplando noi l’allestimento scenico (regia di Luc Bondy ripresa da Lorenza Cantini, scene di Richard Peduzzi, costumi di Milena Canonero), le braccia non ci cadono, sono già mozze. Il I atto si svolge bensì in sant’Andrea e con costumi appropriati, ma nel Te Deum c’è una tale folla di Cardinali che basterebbe per un intero Conclave. Il II atto, misericordia!, è ambientato in un tardissimo Neoclassico che vorrebb’essere Carlo Decimo ed è invece il più sordido Luigi Filippo, ma coi personaggi trasformati in teppisti anni Cinquanta, il palcoscenico gremito di estranei e lo sfondo architettonico di un Fascismo alla Sironi. Così dicasi del Terzo, coi costumi del Primo e l’architettura del Secondo. Tutto ciò in coproduzione col Metropolitan e il Teatro di Stato di Monaco di Baviera. Posso tergermi la fronte?