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 2012  aprile 22 Domenica calendario

IL MONDO E’ GIA’ CAMBIATO. USA LEADER DEL NUOVO GAS

NStar, la maggiore compagnia elettri­ca del Massachussets, a febbraio ha annunciato un taglio del 34% della bolletta dei suoi clienti industriali: dal 1° a­prile le aziende che rifornisce pagano l’elet­tricità 5,5 invece che 8,3 centesimi di dollaro al kilowattora. La utility nordamericana ha promesso un taglio anche ai clienti domesti­ci, che per ora dovranno accontentarsi di u­no sconto del 27% sul gas. Qualche settima­na dopo, a Roma, l’Autorità per l’energia e­lettrica ha comunicato agli italiani che il prez­zo dell’elettricità sarebbe salito del 5,8%, a 18,3 centesimi di euro per kWh. Le aziende i­taliane pagano la luce poco meno dei normali cittadini, in media 16 centesimi per kWh. È quasi quattro volte la tariffa garantita da NStar. L’America taglia e l’Italia (ma più in generale l’Europa) stanga. Succede perché nel Nuovo mondo hanno trovato qualcosa che nel Vec­chio mondo ancora non sanno se c’è: lo sha­le gas . Il gas che si ottiene dagli scisti bitumi­nosi (vedi box a fianco) ha cambiato in pochi anni lo scenario energetico mondiale. Con benefici, almeno per il momento, tutti ame­ricani. Gli Stati Uniti hanno scoperto di ave­re una riserva di gas naturale ’non conven­zionale’ da 23 mila miliardi di metri cubi. Ba­sterebbe a coprire il fabbisogno nazionale per più di un secolo. È tanto gas ed è gas a basso prezzo. Se NStar può tagliare le tariffe è per­ché la maggioranza degli impianti di genera­zione di energia elettrica del Massachussets funziona a gas, e il costo del gas in America è crollato dai 14 dollari per 300 metri cubi del 2008 fino sotto ai 2 dollari (-85%). Un prezzo che sta scombussolando l’industria energeti­ca nazionale: gli impianti a carbone ormai non sono più economicamente sostenibili mentre le stesse compagnie che estraggono gas naturale con i vecchi metodi sono co­strette a chiudere quei pozzi che, a questi prez­zi, producono in perdita. Mentre gli americani si godono un mondo che sta cambiando tutto a loro vantaggio, gli altri sono costretti ad aggiornare i loro pro­getti. Senza che la cosa fosse troppo notata, nel 2011 gli Stati Uniti sono diventati il primo produttore mondiale di gas naturale (con 684 miliardi di metri cubi estratti) rubando il po­sto alla Russia (che si è fermata a circa 634 mi­liardi di metri cubi). Si parla di energia, ma anche di potere. Mosca vende gas naturale ai suoi poco amati ’vicini’ – come Polonia e U­craina – con prezzi attorno ai 17 dollari per 300 metri cubi, 8 volte il prezzo americano.
Gli Usa, molto avanti nelle tecniche di liqui­dazione e rigassificazione, potrebbero inter­venire. Ha previsto Fareed Zakaria, uno dei più autorevoli editorialisti economici statu­nitensi, che «alla scadenza dei contratti tra Russia e Paesi europei, Mosca si ritroverà a fronteggiare un drammatico calo nelle en­trate », e presto «si passerà da un mondo in cui pochi Paesi – Russia, Iran, Qatar e Arabia Saudita – controllano il prezzo e le forniture di gas naturale a un mondo in cui questa fon­te energetica sarà molto più diffusa».
Il miglior esempio delle imprevedibili novità nello scenario energetico mondiale viene da un progetto su cui già stanno lavorando in A­laska (Stato in cui si trova il 13% delle riser­ve americane dello shale gas): l’idea è realiz­zare una condotta che porti il gas verso sud, dove si dovrebbe costruire un impianto che lo riduca allo stato liquido così da poterlo ca­ricare sulle navi cisterna e trasportarlo fino in Cina, dove oggi il gas naturale si paga 15,5 dollari per 300 metri cubi, 7 volte la quota­zione Anche Pechino però vuole il suo gas a basso prezzo. Le stime dicono che la materia prima c’è: le riserve cinesi di gas non convenziona­le sarebbero di circa 25 mila miliardi di metri cubi, anche maggiori di quelle degli Stati U­niti e i inferiori solo a quelle di Argentina, Mes­sico e Australia, altre regioni ricche di shale gas. Il problema è che estrarre il nuovo gas è molto complicato e oggi nessuna compagnia cinese sa farlo. Difatti il colosso nazionale Si­nopec ha investito 2,5 miliardi in un’alleanza con la statunitense Devon Energy per acqui­sirne le competenze. Anche l’italiana Eni è in cerca di shale gas in Cina. Il suo obiettivo prio­ritario resta però il gas non convenzionale eu­ropeo (le riserve sono stimate in 18 mila mi­liardi di metri cubi): ce ne sarebbe soprattut­to in Piccardia (nella Francia del Nord), in U­craina e in Polonia. Ma prima la Francia, lo scorso novembre, e poi la Bulgaria, a gennaio, hanno deciso di fermare le esplorazioni. Han­no bloccato tutto per ragioni ambientali: la tecnica del fracking che si usa per rompere gli scisti e liberare il gas prevede il pompaggio sotteranneo di liquidi che includono anche sostanze chimiche sospettate di inquinare le falde acquifere. È un sospetto, appunto: solo nell’ultimo mese in America l’autorità am­bientale Epa ha finito per rimangiarsi tre do­cumenti in cui accusava alcune aziende di a­vere inquinato l’acqua. Nuovi test dimostra­no infatti che l’inquinamento non c’è stato. E nel Regno Unito il Dipartimento per l’energia e il cambiamento climatico ha da poco con­cesso il riavvio delle esplorazioni nei mari del Nord.
Nel dubbio, l’Europa vuole limitare le ricerche. Col rischio di danneggiare soprattutto la Po­lonia, che è già in uno stato abbastanza a­vanzato di esplorazione. Varsavia ha già fatto capire che non è disposta a fermarsi. Nem­meno davanti alle prime delusioni: Exxon , tra le prime ad avviare le esplorazioni, a gennaio ha annunciato che i due primi pozzi non so­no in grado di dare gas in quantità che possa giustificare la loro esistenza e l’istituto geolo­gico polacco ha tagliato le stime sulle riserve dell’85%, da 5,3 milioni a 800 mila metri cu­bi. Ma le ricerche vanno avanti. La Polonia vuole essere la prima, in Europa, ad emanci­parsi dagli equilibri geopolitici dell’energia del Novecento.