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 2012  aprile 22 Domenica calendario

LA DIASPORA DEGLI ANGLICANI

Nel 1966 va sul grande schermo l’origine della Chiesa d’Inghilterra. In Un uomo per tutte le stagioni di Fred Zinnemann, Paul Scofield è Thomas More, il martire difensore della sovranità del Papa, mentre Orson Welles è Thomas Wolsey, cardinale di Santa Romana Chiesa e cancelliere di Enrico VIII. La regina è infertile: l’obliquo Wolsey trama perché il re possa sposare l’amante e provvedersi di una discendenza cui trasmettere il regno; il giurista Thomas More si rifiuta di piegare il diritto canonico alla ragion di Stato: spetta al Papa e solo al Papa dispensare dal vincolo o dichiararne la nullità e consentire nuove nozze. Scofield è un limpido More: «Dobbiamo semplicemente rivolgerci a Sua Santità e chiedere». È proprio ciò che il cardinale Wolsey ed Enrico VIII non vogliono, non vogliono più. Non è in questione il rifiuto del Papa di dare al re ciò che il re vuole, ma la pretesa del re di non dover «chiedere» più. L’Atto di Supremazia del 1534, con cui Enrico VIII diviene capo e governatore supremo della Chiesa d’Inghilterra, è il divorzio da una Roma sempre più lontana. Enrico VIII e i suoi raffinati consiglieri, Erasmo da Rotterdam tra gli altri, concepiscono un sistema civile e religioso indipendente da un’autorità religiosa straniera.
L’unità tra Chiesa, nazione e Stato fu la base di conquiste che Enrico VIII non poté neppure sognare per il suo piccolo regno e per i suoi pochi sudditi. Si trattò di un percorso complesso. La Chiesa legittimava il potere e forniva base morale allo Stato, ma limitava altresì l’azione del governo e presidiava l’autonomia della società. Il paradosso, solo apparente, originò la liberaldemocrazia britannica: contribuendo ad uno Stato forte, la Chiesa d’Inghilterra disegnò una società altrettanto forte perché caparbiamente libera dallo Stato; dunque, una società cui fu impossibile imporre la cappa monoconfessionale spagnola o italiana. Fu questa la paradossale fortuna della Chiesa d’Inghilterra: il fatto di governare su società multi-confessionali rese gli anglicani aperti e dinamici. Costò molto sangue il braccio di ferro con papisti ed ebrei, con quaccheri e metodisti e infine con musulmani, hindu e atei, ma finì col produrre un cristianesimo liberale e plurale. Nella Gran Bretagna si sviluppò una pluralità di established churches, di chiese di Stato: la Church of England, la sorella Church in Wales per il Galles e la presbiteriana Church of Scotland per la Scozia. Analoga pluralità si sperimentò nelle colonie; anzitutto negli Stati Uniti, dove la rivoluzione generò una Chiesa anglicana «episcopaliana», indipendente dalla Chiesa madre inglese. Sulle vie dell’Impero, la Chiesa d’Inghilterra si sparse nel mondo e gemmò chiese orgogliose della propria autonomia, dalle Indie Occidentali al Sudafrica e all’Australia. Perché non si spezzasse il tenue legame tra loro, le chiese anglicane nel mondo si riunirono nella Comunione anglicana, l’Anglican Communion.
Nel 1966 il grasso Wolsey di Orson Welles e l’integro More di Paul Scofield simboleggiarono i contrasti del cristianesimo inglese. Parlava come i figli dei fiori, il Thomas More papista, che va al patibolo perché ha sfidato il tiranno. La coscienza contro lo Stato; la verità contro gli interessi: «Aiuterò davvero il mio re se risponderò con la menzogna alla sua domanda di verità? E aiuteremo davvero l’Inghilterra se la popoleremo di bugiardi?». Quello del 1966 era ormai un Regno Unito secolarizzato e multiculturale: i Beatles cantavano il povero padre McKenzie che in solitudine «si rammenda i calzini»; e il leader laburista Roy Jenkins prefigurò in un celebre discorso un Paese ricco della propria «diversità culturale». In bilico tra tradizione e futuro, nel 1962 Anthony Burgess aveva descritto il protagonista della sua Arancia meccanica come membro della «C of E», per «Church of England», in una battuta che Kubrick conservò nel film del 1971, ma che sparì nella versione italiana. Nel 1969, il Parlamento inglese liberalizzò il divorzio e riformò in senso democratico la struttura di una Chiesa d’Inghilterra che negli anni Sessanta non aveva alzato barricate contro la fine della censura e la legalizzazione di omosessualità e aborto.
È figlia di questo percorso la Chiesa che dal mese scorso attende un nuovo arcivescovo di Canterbury, il suo primate, dopo le dimissioni di Rowan Williams. Nell’ultimo ventennio la Chiesa d’Inghilterra ha ancora fatto i conti con la storia: ha ammesso l’ordinazione femminile nel 1994 e il riconoscimento civile delle unioni omosessuali nel 2005; ha patito la cecità di governi cui la lezione dei disastri del 1948 in India e in Palestina non ha impedito di giocare con l’Islam, finendo nel pantano afgano e iracheno. Sempre aperta al mondo, la Chiesa si è inorgoglita per la lotta al razzismo cristiano dell’anglicano Desmond Tutu in Sudafrica e si è divisa nel 2003 sull’ordinazione americana di Gene Robinson, primo vescovo anglicano dichiaratamente gay. Continuano a proclamarsi cattolici ed evangelici insieme, i fedeli della Church of England: hanno ironizzato sulle acrobazie vaticane per imbarcare un pugno di anglicani conservatori, ma hanno anche festeggiato il soggiorno inglese di Papa Ratzinger e accolto con dignità il passaggio dalla Chiesa d’Inghilterra alla Chiesa di Roma nel 2007 dell’ex primo ministro Blair, sostenitore dell’aborto legale. «Si passa da una famiglia cristiana all’altra», dichiarò allora l’arcivescovo di Canterbury, «per approfondire la relazione con Dio. Prego sia questo l’esito della scelta personale di Tony Blair». Va cercata nelle tensioni in seno alla Comunione anglicana la vera ragione delle dimissioni di Williams. La sua idea di un patto, un covenant, tra le 44 chiese della Comunione è stato bocciato negli ultimi mesi da ben 25 diocesi della Chiesa d’Inghilterra. Il no all’Anglican covenant riflette il senso di superiorità della Chiesa di Enrico VIII, il suo istinto anti-legalistico e la paura di ingerenze nei delicati equilibri interni. Sono infatti a rischio peculiarità della Church of England come i vescovi membri della House of Lords, la nomina governativa dei prelati e la stessa pregiudiziale anglicana nella successione al trono, amati e odiati anacronismi dell’ultima Chiesa di Stato della Comunione anglicana. Soprattutto, la bocciatura del covenant è il no di chi è convinto che un contratto tra chiese anglicane nel mondo renderebbe ancor più acuti e ingovernabili i dissidi tra chiese, e all’interno d’ogni chiesa, su donne vescovo, matrimoni omosessuali, ecumenismo, secolarismo e giustizia sociale. Testimonia le tensioni la parabola di Michael Nazir-Ali, nato a Karachi, minacciato di morte perché membro di spicco della Chiesa anglicana del Pakistan e fuggito in Inghilterra dove da vescovo di Rochester è divenuto l’accusatore dell’indulgenza anglicana verso multiculturalismo e scristianizzazione.
Quando lanciò il progetto del covenant nel 2004, Williams sognava di trasformare la profonda diversità dell’anglicanesimo in esempio d’unità cristiana mondiale. Perciò ai suoi occhi, il no al covenant è il rifiuto della sua Chiesa di contribuire al cristianesimo del futuro; un rifiuto inaccettabile per chi intenda onorare la responsabilità storica che compete agli eredi di Erasmo.
Marco Ventura