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 2012  aprile 22 Domenica calendario

ZONE DECELLULARIZZATE AL BAR MA SAPREMO RIEMPIRE IL SILENZIO?

Udine conferma la sua ambizione a diventare il comune più illuminato d’Italia, una specie di Atene periclea in formato tascabile (un sindaco matematico, un germanista di chiara fama per assessore alla cultura, eccetera). Da oggi una nuova iniziativa libererà dai telefoni cellulari i locali pubblici che la sottoscriveranno. Si chiama Cell free, è promossa da esercenti, albergatori e commercianti, e significa mangiare una pizza, bere un cappuccino, sfogliare un giornale senza che gli altri avventori continuino a spaccarti i timpani raccontando al telefono i fatti propri.
Al di là della non ancora accertata nocività elettromagnetica, è curioso come noi italiani siamo così gelosi della nostra privacy, eppure non esitiamo a trasformare ristoranti e sale d’aspetto in enormi confessionali collettivi. Muriamo i giardini dietro siepi altissime, oscuriamo i finestrini delle macchine, temiamo che i nostri dati personali passino in mano a malintenzionati, chiediamo nuove leggi contro le intercettazioni, e poi ciarliamo a tutto volume di tresche e litigate fine-di-mondo al telefono cellulare.
C’è la telefonata walkietalkie: «Dove sei, non ti vedo! Ah, eccoti, tu mi vedi? Vieni avanti, sono quello che si sbraccia, mi vedi?». C’è la telefonata depistante: «Eh, no, oggi no. Sto andando a Torino» detto sul Frecciargento diretto a Venezia. Oppure: «Guarda, ci dobbiamo sentire con più calma. Ora sto in motorino», detto nel silenzio pieno di cinguettii di villa Borghese, perché al cellulare si azzarda, sempre.
In treno o al bar in pausa pranzo, c’è sempre quello che si sente autorizzato a sbraitare al telefono perché sta lavorando. È una telefonata di lavoro, sta verificando gli ordini, le fatture, e pazienza se volevi leggere il giornale.
Mi è capitato recentemente di incrociare per strada un volto noto della tv mentre, camminando in mezzo alla gente, urlava nel microfono dell’auricolare: «Ovviamente questa cosa la dico solo a te!». Ora a Udine potremmo tirare il fiato. Resta da capire se sapremo riempire questa nuova quiete, ovvero quanti di noi sapranno resistere senza le vite degli altri.
Mauro Covacich