Daniele Manca, Corriere della Sera 22/04/2012, 22 aprile 2012
LUCIANO BENETTON E LA CORSA DI 47 ANNI: «MIO FIGLIO GUIDERA’ IL GRUPPO»
«Dopo una corsa durata 47 anni, martedì lascio le cariche nell’azienda fondata insieme ai miei fratelli. Il testimone passa a mio figlio Alessandro che diventerà presidente. Ma la scommessa resta la stessa. Fare, immaginare, essere innovativi: questo faceva, fa e dovrà sempre fare un imprenditore». Luciano Benetton è un signore che ha accompagnato la storia recente d’Italia, anticipando fenomeni e spesso dando il passo all’intero settore della moda, del costume nazionale e internazionale. E anche in tempi di crisi come questi mostra di avere ben chiaro come muoversi. A cominciare dal mettere da parte il pessimismo.
Essere ottimisti oggi fa sembrare quasi eccentrici.
«Avrei dovuto essere pessimista vent’anni fa, quando in piena crisi mondiale abbiamo investito l’equivalente di 100 milioni di euro per lo stabilimento di Castrette. L’abbiamo fatto, siamo soddisfatti e la scelta ci ha permesso di crescere e di renderci all’avanguardia nella produzione e nella logistica distributiva, indicando al mondo un modello di business».
Ma lascia ad Alessandro un compito non facile.
«Ha dimostrato anche nella sua storia imprenditoriale, creando 21 Investimenti, che non è tipo da mollare. E i risultati ne sono una prova. Per carattere vuole che le sue iniziative abbiano successo, e così sarà».
Di questi tempi gliene servirà di coraggio e fantasia...
«Servirà soprattutto passione. Quella che ha dimostrato in questi due anni passati da vicepresidente. Innamorarsi del mestiere. Che poi diventa voglia di sfida e di imparare. Quando nel 1969 abbiamo aperto il primo negozio a Parigi, andavamo a casa dei professori. Di coloro che erano considerati i signori indiscussi della moda. Erano le griffe Dior, Chanel e via dicendo. Nessuno parlava di casual, si vestiva di grigio e di blu in quegli anni, soprattutto gli uomini. La sfida resta uguale».
Certo, ma solo per misurare la distanza, negli anni Sessanta c’era un’Italia da costruire, c’era una voglia di rivalsa dopo la guerra, voglia che permeava il Paese, c’era una spinta che oggi si fatica a individuare.
«E adesso non è lo stesso? Non c’è un Paese da rimettere in carreggiata? Semmai è proprio questo che manca all’Italia, la voglia di crescere, di sorprendere il mondo. Aprire un negozio in Iran è chiaro che comporta complicazioni politiche, come pure aiutare artisti iraniani dissidenti dandogli visibilità in Occidente. Ma Benetton è significato anche questo. Significa essere ieri a Sarajevo uno dei pochi negozi aperti durante la scorsa guerra ed essere oggi in Russia come in India. E non è come si pensa solo un uso spregiudicato della comunicazione».
C’è chi lo crede.
«Sbaglia. È tutt’altro, non è solo comunicare valori. È continuare il viaggio, inteso come percorso di scambio di conoscenza, impegno concreto, nel rispetto delle specificità dei paesi, dando e ricevendo possibilità di crescita e benessere. È creare un centro di elaborazione culturale, come Fabrica, e anche qui farlo quando (era il ’94), si investiva pochissimo in cultura. E questo a dimostrazione che quello che c’è alla base è la voglia di rischiare su un’idea. I momenti difficili sono i migliori per farlo. E, le dirò, conviene anche. Si trovano istituzioni, persone più disposte a collaborare, a tutti i livelli anche sindacali. Ripeto si tratta di rischiare».
Sembra quasi volerlo ripetere affinché Alessandro la ascolti.
«Ma no. Anche lui sa rischiare, lo ha già fatto in passato con le sue aziende».
Oggi è più difficile.
«Oggi può apparire più difficile. Noi siamo stati fortunati, abbiamo avuto il vento a favore e oggi spira in senso contrario. Se permette una battuta ci siamo distratti un po’ con le privatizzazioni ma il cuore dell’azienda per la famiglia resta Benetton Group. La competizione c’è sempre stata. Già alla fine degli anni Settanta esportavamo il 60% della produzione. Nel 2005 eravamo in 120 paesi con 5 mila negozi».
Però il mercato è cambiato. E tanto.
«Ma non da ieri. Da quanti anni ormai i negozi hanno superfici assimilabili a quelle dei grandi magazzini? Almeno un decennio se non di più. Però mentre prima la torta da dividersi cresceva, ora rimane la stessa».
Certo, il casual non è più monopolio Benetton come è lo stato per molti anni.
«C’è stata un’accelerazione anche per noi considerati i campioni del far arrivare in negozio quello che vogliono i clienti in tempi velocissimi. Con il gioco dei colori trent’anni fa ci potevano permettere piccole rilassatezze. Oggi non più. Basta farsi un giro a New York».
Perché proprio New York?
«Perché è rimasto il posto più competitivo del mondo. Il primo negozio l’abbiamo aperto nel 1980 in Madison Avenue. Non si parlava di made in Italy, la moda italiana muoveva i primi passi. Eppure ancora oggi è la piazza più difficile».
Cosa la rende così ostica?
«Semplice il fatto che la produzione conta molto poco».
Come la produzione conta poco?
«Ma sì. Negli Stati Uniti il costo del prodotto deve essere il più possibile compresso perché il vero valore è tutto nell’intelligenza che arricchisce il singolo oggetto. Vale a dire lo stile, il cliente al quale lo si indirizza, il come e il dove lo si vende. Una lezione che si fa fatica a capire in Italia».
Cosa c’entra l’Italia?
«Se pensiamo che il nostro Paese debba ancora crescere siamo obbligati a competere non solo sul fronte del costo del lavoro, occorre snellire le regole rigide e la troppa burocrazia per avere investitori. Sono necessari sviluppi in tecnologia, in infrastrutture materiali e immateriali. Dobbiamo ingegnarci per trovare come accrescere il valore dei nostri prodotti. Le idee, la cultura, soprattutto la cultura, è fondamentale la capacità di intersecare piani diversi, dall’arte all’architettura al singolo prodotto. Questo vale per tutti i settori, abbigliamento compreso: senza idee e innovazione non si ha futuro».
Daniele Manca