Francesco Borgonovo, Libero 21/4/2012; Irene Brin, Libero 21/4/2012, 21 aprile 2012
DUE ARTICOLI
LA DONNA CHE HA PORTATO L’AMERICA SUL TEVERE –
Una cartelletta scolorita, sepolta fra una pila di carte. Per cavarla dalla polvere ci è voluta una cronista buttatasi sulle tracce della donna che l’ha ispirata. Così Claudia Fusani, firma dell’Unità, ha scovato negli archivi della Galleria nazionale d’arte moderna di Roma, nel Fondo Obelisco, un libro inedito di Irene Brin. Cioè una delle più grandi giornaliste di tutti i tempi, tanto talentuosa quanto ingiustamente trascurata. Il testo si intitola 1952. L’Italia che esplode ed è un gioiello che va a impreziosire Mille Mariù. Vita di Irene Brin (Castelvecchi, 278 pp, 22 euro), bel racconto biografico presentato ieri alla stampa.
Innamorata di Maria Vittoria Rossi (questo il vero nome della Brin) da quanto le ha dedicato la tesi di laurea, la Fusani ha ricostruito la storia del capolavoro perduto. Doveva essere pubblicato nel 1968 da una casa editrice ligure, la Immordino. Era previsto nella collana «365 giorni di...» curata da Milena Milani, che aveva contattato per l’occasione un pugno di firme prestigiose, tra cui Camilla Cederna e Nantas Salvalaggio. «A ciascuno fu chiesto di raccontare un anno», spiega la Fusani. «Irene scelse il ’52, lo considerava un anno speciale». E in effetti lo era. A Firenze si affermava la moda con le sfilate di Pitti («Nei fatti fu Irene a inventare la prima sfilata femminile», dice la Fusani). A Roma nasceva la dolce vita, con film come Vacanze romane il gusto italico si diffondeva nel mondo. Come dimostrano i brani inediti che riportiamo qui a fianco, la Brin fu maestra nel raccontare al mondo il fermento della Penisola. Collaborava con importanti testate internazionali come Harper’s (che le chiese di organizzare un servizio di Cartier-Bresson) e riuscì – come si evince leggendo la biografia – non solo a portare l’America sulle rive del Tevere, facendola assaporare al Paese che usciva dalle macerie, ma anche a portare Oltreoceano un pizzico di noi.
Torniamo all’inedito. Benché il manoscritto della Brin fosse completo (con tanto di correzioni a mano) non venne mai stampato. L’editore aveva problemi nei pagamenti, probabilmente meditava anche di sfilare la curatela della collana alla Milani per affidarla a Giancarlo Vigorelli. Così le 135 pagine di 1952. L’Italia che esplode finirono nel dimenticatoio. «Spero che ora la Gnam lo pubblichi», dice la Fusani. E noi ce lo auguriamo con lei, così come consigliamo la lettura della biografia, vera «operazione di giustizia» verso uno dei migliori talenti mai comparsi nel nostro giornalismo. «Irene Brin ha influenzato lo stile di tutti noi cronisti», dice la Fusani, «anche, indirettamente, di quelli che non l’hanno letta. Come firma di costume è molto nota, ma vorrei toglierla dal “ghetto” del colore. Scrisse reportage meravigliosi, seguì il marito in Jugoslavia come corrispondente per vari quotidiani del regime fascista, ai quali mandava gli articoli che doveva inviare. Poi però, con pseudonimo e su altre testate, pubblicava pezzi splendidi. Erano per lo più tristi, profondi, e dimostrano che non era per niente una donna frivola».
Dopo tutto, per scrivere con stile di cose frivole ci vuole un temperamento eccezionale. Ora, per completare l’operazione di giustizia, a Irene Brin si potrebbe dedicare, per esempio, una fiction. Nel libro di Claudia Fusani c’è tutto il materiale che serve.
Francesco Borgonovo
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1952, ROMA ESPLODE CON AUDREY E LA LOREN –
Feci del mio meglio per accontentare Maria Louise trovando un petit amour de petit Noël italien. Ma come rispose alla mia lettera Paolo Barbieri: «Qui da noi le spine sono più familiari dei confetti. Napoli ha per Pasqua processioni magnifiche, tutte nere e violette che nemmeno a Siviglia. Però non ne possiede una sola, che sia bianca e oro, per la natività. Noi celebriamo la morte, non la vita». Mi parve una giusta soluzione chiedere a donna Margherita Caetani il permesso di introdurre grossi cavi elettrici nella sua tenuta di Ninfa per fotografare le sue sette chiese semidistrutte. La principessa rispose di sì;Cartier di no: troppo dannunziano. Trovai un monsignore che ci avrebbe consentito di ritrarre la messa in un convento di clausura, attraverso le grate. Cartier giudicò l’idea barocca, seicentesca. Chiesi alla contessa Pecci-Blunt di fotografare dalla sua finestra l’interminabile fila di devoti che sale e scende la gradinata dell’Ara Coeli. Anche questa proposta fu accettata dalla contessa ma Cartier la scartò: troppo image d’epinal o immaginetta sacra. Ormai erano giunti a Roma, la moglie Eli soffice e commovente nei suoi veli dorati che copriva con grossi cappotti di lana nera. [...] Amavano l’Italia e la volevano vedere com’era. Inseguendo l’immagine di un paese che forse aveva cessato di esistere, Eli e Henri trascorsero il dicembre 1951 tra Scanno e Matera. Le comunicazioni erano abolite, gli spazzaneve non funzionavano, corrispondevamo grazie alla buona volontà di Cesareo, di Tamburri del fermo posta e dei ricottari che mi portavano loro notizie: «Anche se mia moglie soffre molto il freddo siamo felici. La gente ci offre ospitalità con meravigliosa gentilezza che bisogna far risalire ad epoche arcaiche». Per tre volte quell’inverno i Cartier-Bresson scesero nel sud dell’Italia e risalirono all’albergo d’Inghilterra, sempre riportando con sé foto eccellenti. (...)
LA DOLCE VITA
Con prezzi ancora bassi,Rossellini in cresta dell’onda, Ingrid Bergman appena divenuta italiana, i teatri di Cinecittà sgombrati e ripuliti, milioni di volenterosi pronti a qualunque genere di lavoro e ignari di ogni richiesta sindacale, Roma rappresentava per gli stranieri una mecca, una manna e veniva citata come Hollywood on Tiber. La dolce vita trionfava ma Fellini non l’aveva ancora identificata, condannata e distrutta. (...)
SOFIA LOREN
Forse perché il ricordo della fame sofferta in guerra era ancora recente, forse perché i nuovi ricchi erano ancora giovani, nessuno si preoccupava di snellezza e sobrietà. Per caso feci parte della giuria improvvisata che diede a Sofia Lazzaro (non ancora Sofia Loren non più Sofia Scicolone) il suo primo premio. Discussi inutilmente con gli altri elettori per nominarla miss Bellezza poiché era splendida. Le toccò ingiustamente quello di miss Eleganza mentre vestiva male: ma c’era una cabala in favore dell’altra candidata, promessa appunto miss Bellezza. Tutte e due non avrebbero potuto essere definite miss Snellezza. Florida Sofia, florida Franca, florida Gina. Certo la guêpière dava loro una vita di vespa, come la dava a Marcella Rinaldi, una cara magnifica indossatrice: oggi le si costringerebbero a perdere dieci chili. (...)
VACANZE ROMANE
Magli avvenimenti spettacolari si imperniavano, soprattutto, su Audrey Hepburn, Gregory Peck, Billy Wilder [forse la Brin si sbaglia: il regista del film era William Wyler, nda] e Vacanze romane. Io stessa, da mesi, sfioravo questi preparativi, Guidarino Guidi non parlava che di Audrey-Gigi, e Jacques Chambrun mi aveva offerto di adottare il Gigi-Audrey. Fu naturalmente Guidarino che mi condusse in palazzo Brancaccio, preso in affitto dagli organizzatori per l’occasione, dove conobbi Audrey squisita, fragile, poliglotta e tuttavia suscettibile. Aveva accanto a sé una madre magnifica, chiamata vagamente la baronne, forse perché si era risposata. Insieme mi spiegarono che Audrey, bambina durante la guerra, aveva assiduamente studiato danza in Olanda, bombardamenti o non bombardamenti. Poi era stata ammessa nella miglior scuola di ballo classico inglese, il Sadler’s Well Ballet, diretta da dame Ninetta de Valois, e dopo qualche mese si era scoperta che non era abbastanza forte per ballare in quanto era cresciuta non solo sotto le bombe ma anche senza cibo sufficiente. «Molto coraggioso » dissi alla baronessa, anzi lo dissi in inglese, ed è un aggettivo difficile a tradursi, «very gallant». La baronessa approvò e sorrise, Audrey sorrise ed approvò. (...)
Vacanze Romane, nettamente ispirato alle vacanze che la principessa Margaret d’Inghilterra aveva trascorso in Italia seguita dal colonnello Peter Townsend, non fu soltanto girato a Palazzo Brancaccio, ma un poco in tutti gli angoli di Roma. La nostra massima attrice pirandelliana, Paola Borboni, aveva imparato l’inglese apposta, accettando un ruolo modesto, la custode dello studio in via Margutta dove avrebbe dovuto abitare il giornalista Gregory Peck (surrogato del colonnello Townsend). Quindi si vide Audrey in via Margutta. E sulle rive del Tevere costruirono una falsa balera popolare, così violentemente illuminata dai fari che la si vedeva arrivando a Roma con l’aereo. Là Audrey in incognito incontrava Peck e ballava con lui bevendo Coca Cola. E del resto le tre donne del giorno furono, in quel giugno, Audrey Hepburn, Marge Albert, la interprete di Winterset, giustamente appoggiata dall’ambasciatore d’America come una gloria nazionale, e la scrittrice Monica Stirling che, anticipando i capelloni, passava la vita in prendisole sulla scalinata a Trinità dei Monti. Il suo libro, Dress Rehearsal, era uscito da poco e ne scriveva un altro. Naturalmente di ambiente romano. (...)
Irene Brin