Lorenzo Mondo, LaStampa, 19.07.1974, 22 aprile 2012
UNA SAGA MODERNA DELLA POVERA GENTE
Elsa Morante: «La Storia », Ed. Einaudi, pag. 657, lire 2000. Al di qua dell’avanguardia e delle febbri linguistiche, delle frantumazioni della coscienza e delle infatuazioni psicanalitiche, Elsa Morante costruisce quello che negli ultimi vent’anni si è detestato come il fumo negli occhi, si è affermato come improponibile e cheap: un grosso romanzo pieno di personaggi e vicende ben definiti e conchiusi, una sorta di saga della povera gente che riesce a compendiare nello stesso tempo, tra passione e intelletto, l’esperienza vitale dell’autrice. « Un giorno di gennaio dell’anno 1941, un soldato tedesco di passaggio, godendo di un pomeriggio di libertà, si trovava, solo, a girovagare nel quartiere di San Lorenzo, a Roma »: è questo l’attacco sorprendente del libro, dove la disarmata fiducia nella necessità ed esemplarità del narrare trapassa a poco a poco in una disposizione didascalica che ha del provocatorio: così nei frequenti raccordi che riassumono e semplificano la storia italiana tra il 1941 e il 1947; o nelle comparazioni che utilizzano spesso i luoghi comuni dell’informazione e della cultura popolare (« Negli ultimi mesi dell’occupazione tedesca, Roma prese l’aspetto di certe metropoli indiane dove solo gli avvoltoi si nutrono a sazietà... »). La Morante giunge addirittura a restaurare la figura del narratore onnisciente, che interviene a commentare certi passi della vicenda, a rettificare gli errori dei personaggi, a mischiarsi e intenerirsi con loro, chiamandoli per nome con voce velata. La Storia è titolo polemico e, come vedremo, anche un poco abusivo. Allude alla storia «grande», che corre parallela, s’interseca con i casi degli umili, se ne allontana, ma finisce sempre con lo stritolarli, vanificando le loro speranze. La macina assurda del potere e della violenza, il suo moto incessante, trovano esemplificazione nella congerie di notizie su guerre, rivoluzioni, atti di governo che precedono ogni capitolo-annata del libro: sì che l’attenzione portata al mondo infimo, pulviscolare della finzione romanzesca può assumere, a fronte, il valore di un pietoso risarcimento. Ma si tratta d’un espediente, dettato da quella tal voglia didascalica. Meglio abbandonarsi, senza esteriori puntelli, alla storia piccola di Giuseppe detto Useppe, protagonista assoluto, se anche la madre, che è l’altra grande figura del romanzo, vive idealmente incurvata nell’abbraccio protettivo di lui, si umilia a valva per proteggerne la perla rilucente. Nasce, il piccolo, dalla violenza che un soldato tedesco ha perpetrato su Ida Ramundo: una maestrina rimasta vedova, mezzo ebrea per parte di madre (e il peso e il privilegio di questa ascendenza trovano nelle pagine iniziali delicate notazioni e calde risonanze: come la morte della nonna, che cammina intrepida nel mare di Calabria verso un’abissale terra promessa). Generato dal sangue dell’oppresso e dell’oppressore, dall’abbraccio di due paure, Useppe annulla in sé ogni storico discrimine, la sua innocenza è la stessa del primo uomo gettato allo sbaraglio su un pianeta dolcissimo e funesto. Assistiamo alla sua crescita con un senso di stupore, davvéro nella nostra letteratura non si ricorda tanto intensa e partecipe attenzione rivolta a un bambino. Useppe che battezza le cose con un balbettio musicale che è a sua volta la riduzione di un dialetto romanesco tenero e vivo. Useppe che. uscendo di reclusione come il giovane Budda, scopre la miseria e il dolore, ma non si lascia intorbidare la sorgiva gioia di vivere e tutta la sua esperienza trasforma in favola. Impossibile dimenticare la grazia del suo corpicino magro dove certo le scapole sporgenti tendono alla piumosità dell’ala, il ciuffo di capelli diritti e restii, gli occhi stellanti: «la stranezza di quegli occhi ricordava l’idiozia misteriosa degli animali, i quali non con la mente, ma con un senso dei loro corpi vulnerabili, "sanno" il passalo e il futuro di ogni destino ». Ecco, a questa figurina straordinaria che passa per la vita benedicendola, esaltandone il più occasionale e perfin immondo lucore, s’accompagnano profili nitidissimi di animali, sorpresi nei loro moti più fugaci, assunti naturalmente alla dignità dell’uomo senza per questo asservirli a cadenze antropomorfiche. Il vi¬ tello che, simile agli ebrei della grande razzia romana, attende sul vagone ferroviario di essere immolato. II cane Blitz che, quando muore, diventa « così inaccessibile che nemmeno tutte le polizie del Reich potevano riacchiapparlo ». La gatta Rossella, magra di fami e di amori che le consumano l’estrema vanità del pelo. La cagna Della, infine, che accompagna il ragazzino in avventure di lancinante dolcezza sulle rive del Tevere, oscuramente memore di altre custodie e assalti nelle steppe materne dell’Asia. Dalla storia di Useppe e di Ida, ossessionata dal marchio razziale che potrebbe ulcerarle il figlio, farne preda ai malvagi, molte altre rameggiano: ubbidendo, più che all’ambizione di esaurire lo spessore e il senso di un’epoca, al piacere di concedersi mondi inesplorati, di veder maturare un personaggio che un semplice moto di disamore potrebbe annullare. Certo non tutto persuade allo stesso modo. La festosità del fratello maggiore di Useppe, un ragazzo di vita, finisce con l’essere, più che ripetitiva, leziosa. Le elucubrazioni ideologiche dell’ebreo Davide e la sua volontà di annientamento appaio no in parte libresche. I capitoli di vita partigiana sono più abili che autenticamente rivissuti. Molte volte sembra di imbattersi in una serie di « citazioni » da certo neorealismo o substrato neorealistico che interessa i nomi di Vittorini, Calvino, Pasolini. In verità, l’accanimento di Elsa Morante sul reale vale so- prattulto quando riesce a restituircene la dimensione favolosa, sia pure tragica. Si leggano le pagine bellissime, mosse da una diastole-sistole di ebbrezza vitale e mortuaria disperazione, in cui Useppe viene aggredito dall’epilessia: il «grande male» è una specie di Orco che si abbatte su di lui a tradimento, lo terrorizza e lo soffoca lasciandolo stremato ai margini della vita. Questo il significato di quegli occhi esageratamente grandi, di quella precocità subito bloccata, per un oscuro desiderio di non crescere, di non maturare al male e alla morte. Qui va ricercata l’incorrotta poesia del romanzo, qui dove la protesta della Morante travalica gli accidenti della storia e diventa cosmica, dove più testardi si fanno i « perché » del bambino, simili a quelli « dei gattini buttati via. degli asini bendati alla macina, dei capreititii caricati sul carro per la festa di Pasqua. Non si è mai saputo se tutti questi pecche innominati e senza risposta arrivino a una qualche destinazione, forse a un orecchio invulnerabile di là dai luoghi ». E’ l’innocenza di Useppe. il suo incarnare le ragioni di tutti, che rende più legittimi e urgenti gli eterni interrogativi dell’uomo. Il male sacro lo consegna alla lotta con l’angelo. Un bambino nato per caso in una borgata di Roma in anni di biblici flagelli diventa il chiaro emblema di quanto preziosamente irripetibile sia la vita di ogni essere, straziante l’insulto che lo cancella. Pagina 8 numero 158