Mario Soldati, LaStampa, 11.08.1974, 22 aprile 2012
HISTORIA E STORIA IL SUCCESSO DEL ROMANZO DI ELSA MORANTE
Historia e Storia Tre mesi fa, quando uscì il romanzo di Elsa Morante, mi trovavo in America, e cosi non sono stato tra i primi a leggerlo. Poco male: La Storia ha avuto un successo enorme e immediato: a questi centomila lettori moltissimi altri se ne aggiungeranno, subito e in seguito, in Italia e dovunque nel mondo. E’ un’opera che si stacca dalla letteratura d’oggi, anche da quella migliore; e che vola, alta, verso il futuro o, piuttosto, verso tutti i tempi: perché è pensata fuori dal tempo: perché vede la Storia sub specie aeternitatis, e si intitola La Storia appunto con una Esse ironicamente maiuscola. Con la stessa parola, e con la stessa ironia, comincia un altro romanzetto della letteratura italiana: «L’Historia». Si dimentica quasi sempre che il suo inizio non è già «Quel ramo del lago di Como...» ma invece: «L’Historia si può veramente definire...». E non a caso, nella Introduzione dei Promessi Sposi, troviamo, codificato sotto una mascheratura paradossale, quello stesso concetto ispiratore e formatore, quella stessa ispirazione che, come una risonanza solenne e melanconica, come un basso continuo, riaffiora di tanto in tanto, e riudiamo puntualmente, ad ogni finale di capitolo o di episodio, lungo le seicentocinquanta pagine del romanzo di Elsa. Alle opere storiche ufficiali (che narrano e raccolgono «solo le spoglie più sfarzose e brillanti, imbalsamando co’ loro inchiostri le Imprese de’ Preticipi e Potentati, e qualificati Personaggi, e trapontando coll’ago finissimo dell’ingegno i fili d’oro e di seta, che formano un perpetuo ricamo di Attioni gloriose») l’Introduzione dei Promessi Sposi contrappone una «notitia di fatti memorabili se ben capitorno a gente meccaniche e di picciol affare» e vuole lasciar memoria ai posteri appunto di questi personaggi umili e ignoti, «con far di tutto schietta e genuinamente il Racconto, ouuero sia Relatione». Se ora si pensa che la vicenda de La Storia è ambientata nei quartieri più poveri di Roma, durante e dopo l’ultima guerra, più vicina ancora alla sua ispirazione è la strofa finale del primo coro dell’Adelchi, anche se la musica ne sembra così lontana: Il forte si mesce col vinto nemico, I col novo signore rimane l’antico; I l’ini popolo e l’altro sul collo vi sta. / Bividono i servi, dividon gli armenti; I si posano insieme sui campi cruenti / d’un volgo dispenso che nome non ha. Queste, infatti, sono le citazioni che Elsa Morante ha scelto per il suo romanzo: Non c’è parola, in nessun linguaggio umano, capace di consolare le cavie che non sanno il perché della loro morte. (Un sopravvissuto di Hiroshima). ...hai nascosto queste cose ai dotti e ai savi e le hai rivelate ai piccoli... perché così a te piacque. (Luca, X-21). La Storia narra le vicende di piccoli e piccolissimi personaggi, ciascuno amato e studiato nella sua particolare, inconfondibile individualità. E il protagonista è addirittura un bambino, che nasce illegittimo e che muore a sei anni, ma che, come per un miracolo, vive nell’amore e nel dolore, nella felicità e nello strazio, perfettamente consapevole di tutta la bellezza e di tutto l’orrore della vita: il bambino Useppe, immagine centrale del romanzo, figura lirica e tragica insieme, che nessun lettore potrà dimenticare. * ★ Poco male, dicevo, se ho letto il libro in ritardo: poco male, anzi pochissimo perché è un affare che riguarda me solo: sono già apparse quantità di recensioni! In particolare, non potrei dire meglio né molto più di quanto ha detto Natalia Ginzburg. Non potrei che ripetere le sue osservazioni geniali: «L’Italia de La Storia è un’Italia tragica. E’ il luogo che il caso ha scelto come luogo di sventura, affollamenti di vittime innocenti e ignare, uno fra i luoghi della terra che hanno visto i convogli degli ebrei, il ghetto vuoto, e prostitute uccise da misere mani desolate, e eterne e fiduciose attese di soldati morti»; «L’io narrante, ne La Storia, è importantissimo, e non denuncia dei limiti, ma è invece il punto da cui viene contemplato il mondo... Sceglie e raggiunge alcune fra le più sperdute creature della terra, segue il corso del loro destino e ne illumina le qualità misteriose. In un simile sguar¬ do, la felicità e la sventura, la vita e la morte, risplendono di luce diversa, ma è sempre luce. La tenebra non è nella morte, ma nei poteri occulti della Storia, che decretano la morte e la sventura degli umili, gli stermini e le stragi. La morte del cane Blitz, la morte di Ninnuzzu, le parole ingiuriose di Davide ("Vattene, brutto idiota, col tuo cagnaccio!") hanno gli accordi strazianti della sventura ma non annientano gli accordi melodiosi della felicità, non ne spengono la gloria indistruttibile e immortale. La sventura, la malattia, la pazzia, la morte, sono offese orrende contro la felicità, l’infanzia e la vita, c tuttavia sono, nei confronti della felicità, dell’infanzia e della vita, in condizioni di parità»; «Così, ne La Storia, sono in condizioni di parità gli animali nei confronti degli uomini», e gli uomini nei confronti dei bambini. Nessun rapporto, se non apparente, col neorealismo italiano del dopoguerra, e con Pasolini. Il neorealismo vedeva la seconda guerra mondiale e la Roma di quegli anni «su uno sfondo dai contorni duri e precisi suggellati da rozze speranze. Qui, le medesime cose sono viste in una dimensione immensa e confusa, in profondità e nello stesso tempo come da lontananze sterminate, e non ci sono più tracce di quelle rozze speranze. La voce che racconta, ne La Storia, è la voce di chi ha attraversato i deserti della disperazione. E’ la voce di chi sa che le guerre non hanno mai fine, e che saranno sempre deportati gli ebrei, o altri per loro». ★ * Dopo il bambino Useppe, i personaggi più incantevoli sono gli animali. Il cane Blitz, per esempio. Di lui, povero e goffo bastardello scomparso sotto il bombardamento di San Lorenzo, «di lui, la prima cosa che tornava nel ricordo era quella macchietta bianca stellala che aveva sulla pancia. Quell’unica eleganza della sua vita diventava anche la pietà suprema della morte». E questo, forse, è il più toccante tra tutti i passi sintomatici della passione religiosa (di una religione esistenziale, naturalmente) che anima il romanzo: qui, si è confrontati direttamente con l’angoscia e con il mistero della scomparsa dell’individualità. E la gattina Rossella e il suo unico micio che muore appena nato. E Bella, la grande pastora maremmana, memore ancestralmente delle pianure dell’Asia. E tutti gli uccelli, con le loro canzoni: specialmente i due lucherini con quella dello scherzo, che impariamo a riconoscere molto meglio di quanto ci sarebbe stato possibile se il nostro sguardo, posandosi sulle magiche parole che la descrivono, avesse fatto scattare un registratore dal libro... Ma no! che accade? Mi accade qualcosa di straordinario: lo riferisco, anche se rischio di non essere creduto da chi mi legge: sono sicuro che Elsa Morante mi crede. Dunque: per caso, in questo medesimo momento, mentre scrivo, accade che qui, nel bosco, appena fuori della finestra del mio studio, un lucherino canta improvvisamente proprio quella stessa canzone: E’ uno scherzo uno scherzo lutto uno scherzo! Per caso? Oppure per una misteriosa, sebbene naturale, consapevolezza che lo ha messo in comunicazione con me? Quasi in risposta, e per darmi così la prova della propria consapevolezza, adesso il lucherino tace, e continua a tacere. Incantevoli tutti gli animali: e perfino la tigre, e il leggen dario Panda Minore (Ailurns fulgens, Himalaya), evocati al momento buono, come da un grande animalista che non dimentichi alcune specie rarissime e le includa, a volte, negli angoli delle sue tele. «Il Panda Minore, che vive sugli alberi in boschi di montagne irraggiungibili; e ogni tanto scende in terra in cerca di germogli da mangiare. Di uno di questi panda minori si diceva che trascorresse dei millenni a pensare sul proprio albero: dal quale scendeva in terra ogni trecento anni. Ma in realtà, il calcolo di tali durate era relativo: difatti, nel mentre che in terra erano passali 300 anni, sull’albero di quel panda minore erano passati appena dieci minuti». E incantevoli i vecchi, i vecchissimi: il nonno ciociaro, sfollato a Roma in casa di parenti, e ritratto con amorosa meticolosità nella sua viti mi nima, nelle ultime gioie e negli ultimi dolori della sua decrepitezza. E i tre tedeschi che hanno rubato un maiale e che se ne vanno ubriachi cantando su per un viottolo di campagna: e che vengono trucidati atrocemente. Episodio breve, folgorante, scritto con quella fermezza che è solo dei grandissimi narratori. E la storia della prostituta Santina e del suo miserabile magnaccia Nello D’Angeli, che non si accorge di amarla: «l’interesse dei soldi, a sua propria insaputa, gli serviva piuttosto di pretesto per trovarsi vicino a lei»: si è sempre sentito odiato da tutti, ed è sempre vissuto odiando tutti: uccide la povera Santina perché si vergogna, perché non sopporta di amarla. E la morte di Mariulina: estrema abiezione impavidamente raccontata, con la pietà e con la naturale delicatezza di chi non ha mai paura del vero. ★ ★ Se, infine, tento di ripensarlo nella sua vastità, nel suo accumularsi e progressivo infoltirsi di episodi e di personaggi, questo romanzo mi appare come una grande serie drammatica e alternante: ora meraviglie di felicità, verdi paradisi dell’infanzia, fascinose delizie innocenti, la gloria del creato; e ora brutture, torture, atrocità, l’infamia dell’esistere: le aggressioni, gli assalti, gli inevitabili trionfi del male: non solo del male che ci è fatto dagli altri, ma anche del male più oscuro e terribile, che ciascuno, volontario o involontario e sempre innocente, fa a se stesso. Proprio in queste alternanze; in tutti questi successivi incontri col male; in questo fatale, periodico svanire della felicità e delle bellezze all’apparire del male; in questa solenne, eroica parità con cui Elsa Morante riesce a contemplare, a scrutare fino in fondo, l’uno e l’altro vero, è forse il valore ultimo e massimo de La Storia. Nella grottesca Introduzione dei Promessi Sposi, Manzoni si chiede come mai sotto l’Impero del Grande Re Cattolico, nostro Signore, Sole che mai tramonta, e sotto il Governo dei suoi Illustrissimi Funzionari, Amplissimi Sena tori, Spettabili Magistrati, il mondo si sia tramutato «in inferno d’atti tenebrosi, malvagità, e sevizie che dagli huomini temerari) si vanno moltiplicando»: e si risponde che ciò non fu possibile «se non per arte e fattura diabolica». Veniamo ora all’ultima pagina dei Promessi Sposi: alla famosa conclusione: «Dopo un lungo dibattere e cercare insieme, conclusero che i guai vengono bensì spesso perché ci si è dato cagione; ma che la condotta più cauta e più innocente non basta a tenerli lontani, e che quando vengono, o per colpa o senza colpa, la fiducia in Dio li raddolcisce, e li rende utili per una vita migliore. Questa conclusione, benché trovata da povera gente, c’è parsa così giusta, che abbiam pensalo di metterla qui, come il sugo di tutta la storia». * ★ Ma se quest’idea del male è rigorosamente cattolica, l’idea del male formulata con voluta goffaggine («se non per arte e fattura diabolica») nell’Introduzione, che cos’è? Molto si è detto sul Manzoni; molto, ancora, si dirà: ma non si potrà mai dire che Manzoni non fosse tipo da pensarle tutte. E’ probabile, quindi, che la formula «se non per arte e fattura diabolica» contenga perfino una caricatura, una sorda allusione comica all’idea giansenista del male. Il cammino spirituale del Manzoni sarebbe, così, una pavida ritirata. Ma se «un vulgo disperso che nome non ha» è la comune ispirazione umana del Manzoni e della Morante, il male vitale, essenziale, esistenziale, il male-in-parità-col-bene de La Storia non ha più nulla die vedere con il male de L’Historia, con «i guai utili per una vita migliore». Un «sugo» roseo, consolatore, blandamente ottimistico: la conclusione dei Promessi Sposi non poteva essere altra: tanto incerta era, nel profondo, la fede del Manzoni: tanto scrupoloso, superstizioso e letterale il suo attaccamento al dogma cattolico: tanto atterrito, forse, il suo ricordo di una prima giovinezza giansenista. Naturalmente, la bellezza di cui i Promessi Sposi traboccano cela infinite verità più vere di questa professione di fede sull’uscio di casa, programmatica, didascalica. Ma non è, ad ogni modo, più umile, più matura, più generosa e coraggiosa la fede della Morante, con la sua accettazione di una parità tragica tra il bene e il male, e con il suo filo di speranza? Anche la Morante, del resto, ha voluto concludere: e Io ha fatto anche lei all’ultima pagina, anche lei alle ultime righe: sia pure escludendo quel linguaggio da tinello, nella cui modestia il Manzoni si compiacque per garbo di finire, ha voluto finire anche lei garbata e modesta. Prendendo un tono scientifico e insieme favoloso, ha avviluppato la propria conclusione in un’immagine emblematica: è tornata alla figura di quell’Ailurus fulgens, di quel Panda Minore «che stava sospeso in cima a un albero dove le carte temporali non avevano più corso». Che cos’è, infatti, la Storia se il valore del tempo non è più assoluto? Come non accogliere, con questa relatività del tempo, anche una speranza d’immortalità? Pagina 3 - numero 178