Lauretta Colonnelli, Corriere della Sera 16/04/2012, 16 aprile 2012
DIONISO, IL PUTTO E I DEMONI, LA SCULTURA DIVENTA UN «PASTICCIO»
Dioniso ha il busto di una giovane donna, forse una Nike, con i seni ben modellati dai panneggi della tunica in porfido scolpito a pieghe ondulate, come mosse dal vento. La testa è antica, in marmo bianco. Il volto ha lineamenti regolari, dolcemente femminei, incorniciati dai capelli a ciocche che si intrecciano a pampini e corimbi. Il collo e le braccia, volutamente tagliate sopra i gomiti per simulare un ritrovamento archeologico, sono stati scolpiti nel marmo bianco, e incollati al resto, presumibilmente nell’ epoca di passaggio tra il tardo Rinascimento e il Barocco, quando questo genere di assemblaggi cominciarono ad apparire sul mercato antiquario, per soddisfare la grande richiesta di sculture antiche. Periodo in cui non si buttava via niente. Ogni frammento di marmo ritrovato negli scavi veniva riutilizzato per creare «pastiche» più o meno riusciti. La statua di Dioniso, che fa la guardia all’ entrata della mostra «Sculture dalle collezioni Santarelli e Zeri» inaugurata ieri presso il Museo della Fondazione Roma a Palazzo Sciarra (via Minghetti, 22; aperta fino al primo luglio, catalogo Skira), rappresenta una specie di enciclopedia di questo tipo di restauri. Dario Del Bufalo che ha curato l’ esposizione insieme ad Andrea De Marchi, fa notare le innumerevoli integrazioni del busto databile nel secondo secolo dopo Cristo. Certe lacune nel porfido egiziano sono state riempite in marmo rosso antico, le cui cave si trovano sul promontorio di Capo Tenaro nel Peloponneso ed erano usate già in epoca romana. Altre parti mancanti sono state sostituite da breccia rossa e scagliola. Nel panneggio alla base del collo si nota persino una scheggia minuscola - grande non più di un’ unghia - di alabastro fiorito. Il fascino di queste pietre, che nell’ antichità arrivavano a Roma da ogni parte dell’ impero, risalendo il Tevere dopo aver attraversato il Mediterraneo su navi spesso costruite su misura, ha colpito anche il grande storico dell’ arte Federico Zeri e un imprenditore, Dino Santarelli: nel dopoguerra incrementano separatamente, ma seguendo strade parallele, due collezioni di sculture lapidee. Il primo partendo da un nucleo originario del parente Antonio Muñoz, il secondo da un primo gruppo appartenente alla famiglia della moglie Ernesta D’ Orazio. Ora, grazie all’ intuizione di Emmanuele Emanuele, presidente della Fondazione Roma, le due collezioni vengono esposte insieme, per mostrare al pubblico opere mai viste e permettere agli studiosi di esaminarle a confronto. «Due collezioni diverse eppure conciliabili e dialoganti, dalle quali emerge un intenso legame con Roma e che proprio nel segno di Roma riuniscono opere di straordinaria bellezza, dai ritratti di età romana rinascimentale e barocca ai bassorilievi, dalle statue ai campionari di marmi colorati di età imperiale», osserva Emanuele. A Palazzo Sciarra sono riuniti circa novanta pezzi, che vanno dal primo e secondo secolo avanti Cristo fino agli inizi dell’ Ottocento. Ci sono le riedizioni in pastiche, realizzate in maniera colta e pulita, da scultori come Nicolas Cordier e Bartolemo Cavaceppi, che hanno lavorato a Roma rispettivamente alla fine del Cinquecento e ai primi del Settecento. Ci sono esempi di come anche nell’ antichità venivano usati assemblaggi di marmi, in penuria di un blocco unico. Emblematico il busto femminile drappeggiato, risalente al primo secolo dopo Cristo. Per realizzarlo, l’ artista dell’ epoca prese quattro diversi segmenti di alabastro a strisce, provenienti dalla valle del Nilo, e li incollò con un perno metallico centrale. Poi scolpì la figura come se fosse in un unico pezzo. Una tecnica abituale nel mondo antico, che si rifaceva a quella usata in architettura per costruire le colonne doriche. Ma qui l’ effetto è curioso, perché le strisce nei vari blocchi vanno in direzioni diverse a seconda del taglio. Per far capire in che modo si lavorava nelle botteghe degli scultori e dei restauratori, ne è stata allestita una che si incontra verso la fine del percorso della mostra. Contiene i modelli in gesso, sempre presenti per l’ ispirazione dell’ artista; il «toppo», base girevole per modellare il blocco di marmo; la «binda» una specie di crick per sollevare con poco sforzo i pesanti massi lapidei; i mazzuoli e gli scalpelli. Questi ultimi, per incidere il durissimo porfido, venivano scaldati e poi raffreddati nell’ olio. Una tecnica che nel corso dei secoli è stata persa e ritrovata più volte.
Lauretta Colonnelli