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 2012  aprile 20 Venerdì calendario

CIONI MARIO, ALTRO CHE WOODY ALLEN - Né

incendiario, né pompiere. Né rivoluzionario, né reazionario. Roberto Benigni veleggia placido, da anni, in un limbo perennemente candido e incontaminato, dove ogni cosa è illuminata (e ancor più innamorata). La satira è una parentesi a margine del film da promuovere. Un prologo neanche troppo puntuto per la celebrazione di Dante o dell’Inno di Mameli. Esce oggi il nuovo film di Woody Allen, To Rome With Love. È brutta la pellicola e prescindibile la parte di Benigni, come lo era la sua Pantera Rosa: somigliava a Peter Sellers, sì, ma non sempre le affinità elettive si traducono in eredità cinefile. Le nuove generazioni tendono a pensare che Benigni, a ottobre sessantenne, sia una sorta di guitto buonista, più mansueto che arrabbiato. Bravo a piacere a tutti, quindi doppiamente colpevole (perché doppiamente disinnescato). Non era così.
PRIMA DEI FILM stanchi, dei Pinocchio irrisolti e delle tigri innevate, è esistito un comico scapigliato di talento raro. Non aveva ancora una Beatrice (o Yoko Ono?) a cui consegnare se stesso. Non era inzuppato d’amor, bensì di iconoclastia. Scandaloso per l’Italia demo-cristiana, deflagrante per il Vaticano, oltraggiosamente immarcabile. Refrattario agli schemi. Uno degli aspetti che maggiormente feriva, dell’ultimo Benigni, era il suo volersi distanziare dagli inizi, quasi che quel turpiloquio illuminato costituisse un peccato originale da espiare. Un atteggiamento su cui ha ironizzato anche Stefano Disegni sulle pagine del Misfatto. Ora si ha la prova, se non altro commerciale, che Benigni non ha rinnegato la gavetta. Al punto da eternarla in cinque dvd, prodotti dalla sua (e della moglie Nicoletta Braschi) Melampo Cinematografica, in collaborazione con Flamingo Video. Dal 18 aprile sono disponibili i primi 3 dvd della collana “Il primo Benigni in tv”, gli altri due usciranno a maggio.
VITA DA CIONI, Onda libera. Rai, fine anni Settanta. Nel 1975, Benigni aveva conosciuto Giuseppe Bertolucci, che scrisse per lui Cioni Mario di Gaspare fu Giulia. Il monologo teatrale, circolato per decenni tramite audiocassette mitiche, diede vita al censuratissimo Berlinguer ti voglio bene. E gliene voleva davvero, Benigni, al punto da prenderlo in braccio nel celebre scatto dell’83. Ieri era Berlinguer, qualche anno fa Mastella (a ruoli invertiti): a volte i tramonti non sono romantici.
I dvd mostrano uno scenario oggi impensabile. Onda libera si svolgeva in una stalla, la Rai sbottava ma alla fine mandava in onda. Tra gli autori figurava Umberto Simonetta. Il compagno inseparabile era Carlo Monni, poi “Vitellozzo” in Non ci resta che piangere, ma compariva anche Francesco Guccini. Secondo il quale, per antonomasia, gli eroi “son tutti giovani e belli”. Così anche Benigni, “eroe” acerbo di una rottura stilistica ridanciana e trascinante. Le invettive sboccate contro Giorgio Almirante, i dialoghi col proprio pene (ribattezzato “Gommone”), i film porno castigati sul grande schermo (“O che c’entran le pecore?”). Le battutacce sulla barista Wanda. La “bestemmia rafforzativa”. La
sensibilità inimitabile nel ridare vita alla Toscana delle
Case del Popolo, o alle sedi
di partito che si prefiggevano obiettivi improbi: l’emancipazione della donna, la risoluzione del conflitto in Medio Oriente. E poi il sesso ostentato, così iperbolico da risultare per contrasto quasi casto. Un Benigni a corpo sciolto, eretico, sacrilego (“O Gesù mio, tutti quei chiodi, chi nelle mani te li conficcò?”, canticchiato come una cantilena sbeffeggiante). Genuinamente intatto, persino sopra il doppio palco dell’Ariston di Sanremo: quello colto-alcolico del Club Tenco e quello nazionalpopolare del Festival Rai (che presentò nel 1980). Oppure nelle scorribande, tuttora avvolte da leggenda, con Andrea Pazienza a Montepulciano. O nell’Altra Domenica con Renzo Arbore. O nei primi film. La regia era debole, e così sarebbe rimasta, ma al dilettantismo formale Benigni ovviava con una rilettura irresistibile degli standard comici.
I dvd nuovi (cioè vecchi) sono esilaranti, ma mettono un po’ malinconia. Assurgono a ritratto di un artista seminale, che non poteva – né doveva – cristallizzarsi. Secondo Pete Townshend, leader degli Who, canzoni come My Generation si possono scrivere giusto a vent’anni. Dopo quella fase, la razionalizzazione è inevitabile: forse
“una morte un
po’ peggiore”,
per citare ancora
Guccini.
FORSE IL PASSAGGIO
da “brillante promessa” a
“solito stronzo”. O piuttosto il naturale corso degli eventi. È un fatto che il primo Benigni, quello delle My generation, sia terminato con Cioni Mario. Poi c’è stato il Benigni “perfetto”, in equilibrio profano tra istinto (con Massimo Troisi), capacità attoriali (Daunbailò), apparizioni catodiche “patonziane” (con Baudo, con la Carrà, con tutti) e l’apice “impegnato” de La vita è bella, che ha coinciso con l’ascesa al rango equivoco di “venerato maestro” (per ultimare la progressione di Arbasino). Non è stato Cioni ad aver vinto l’Oscar, ma Benigni. Qui risiedono grandezza e condanna: la maturità migliore, l’apice indimenticabile. Non durevole, però. Il resto – il prosieguo, il presente – è terza vita. Guizzo occasionale, risata rassicurante, divulgazione dotta. Un Cioni Mario a sessant’anni sarebbe patetico. E questo Benigni lo sa. Ma il Cioni Mario venticinquenne resta ancora la risata migliore. E questo, in cuor suo, Roberto l’ha sempre saputo.