Giovanni B. Conte-Ludovico Tallarita, Corriere della Sera 20/04/2012, 20 aprile 2012
VIAGGIO NELL’ULTIMA MONARCHIA ROSSA DOVE OPERAI-SCHIAVI SPAZZANO L’ASFALTO —
Non ci sono racconti, documentari o romanzi che ti possano preparare per un viaggio in Corea del Nord. Sul volo Pechino-Pyongyang s’incrociano sguardi tra estasi e apprensione. Attraversare il mar Giallo a bordo di un ex velivolo sovietico degli anni Settanta non rassicura. Ma stiamo per vivere un’esperienza riservata solo a pochi fortunati. Al ritiro bagagli siamo contornati da una quantità impressionante di uomini in divisa. Solo ai più fedeli al regime, inclusa la nazionale di calcio rimpatriata sul nostro volo, è permesso lasciare il Paese. Sul nastro trasportatore scorrono tv al plasma, aspirapolveri e frullatori. Nel parcheggio solo Suv e macchine tedesche: chiaramente i pochi privilegiati non hanno difficoltà ad aggirare le sanzioni internazionali.
Sull’autobus ci presentano i nostri accompagnatori. Oltre all’autista, saremo seguiti da due guide — Mr W. e Miss Y. — e da un cameraman. Mr W. appare infastidito dalla quantità di foto che inevitabilmente tutti stanno scattando e ci ricorda immediatamente che «la Corea non è un Paese come gli altri», nel caso non ce ne fossimo ancora resi conto. Tra gli obblighi, quello di rimanere sempre in gruppo, di non fotografare militari né qualsiasi cosa potesse mettere in cattiva luce il regime. Per sei giorni su sette pernottiamo all’Hotel Ryanggang, uno dei tre alberghi per i pochi turisti stranieri. Ci accorgiamo subito di un problema che riscontreremo durante tutto il viaggio: la mancanza di elettricità e riscaldamento, anche all’interno degli edifici più importanti della capitale. Nelle nostre stanze la luce è fioca e l’acqua calda un bene raro e prezioso. Nonostante ciò la televisione si accende e possiamo godere dei tre canali nazionali che propongono le prodezze dei tre Kim in rotazione continua.
Percorrendo le strade della capitale si ha l’impressione di essere stati catapultati da una macchina del tempo indietro di almeno mezzo secolo. Ci sentiamo sul set di un film, un misto tra 1984 e Goodbye Lenin. Ovunque fervono i preparativi per i festeggiamenti in occasione del centesimo anniversario dalla nascita del «Grande Leader» Kim Il-sung. In centinaia si affannano a risistemare strade e marciapiedi sotto l’attenta sorveglianza di soldati armati. Abituati all’inquinamento visivo londinese, ci disorienta l’assenza di insegne luminose e messaggi promozionali. Al loro posto slogan patriottici e tanta propaganda. Sin dal primo giorno cominciano gli attriti con le nostre guide. Anche comprare una bottiglietta d’acqua può rivelarsi un problema: in quanto stranieri ci è vietato entrare nei negozi comuni e maneggiare la valuta locale. Veniamo invece dirottati verso una bottega esclusivamente per turisti. I nostri giri proseguono con un’immersione quasi verticale all’interno della metropolitana di Pyongyang. Il colpo d’occhio è immediato, colonne e lampadari sfarzosi per un progetto che, almeno esteticamente è di livello superiore perfino a quello londinese. A questo punto decidiamo di correre un rischio e in un momento di disattenzione delle nostre guide saltiamo su un treno in partenza. Il tragitto è breve ma noi siamo chiaramente fuori posto e gli sguardi dei passeggeri variano tra il sorpreso ed il preoccupato. Decidiamo quindi di uscire all’aria aperta ma capiamo subito che non saremmo in grado di arrivare lontano. I taxi sono vietati agli stranieri e sono troppi gli uomini in divisa che cominciano a fissarci. Prima di potercene rendere conto siamo scortati da un soldato verso una destinazione ignota. La nostra assenza non è passata inosservata e in soli dieci minuti veniamo raggiunti da un Mr W. in chiaro stato di agitazione.
Questa nostra insubordinazione si trasforma inaspettatamente in un’occasione per poter chiacchierare in maniera più rilassata con le nostre guide. Miss Y. ci confida la sua passione per il cibo e la musica italiana sorprendendoci con un’improbabile interpretazione di «O Sole Mio». Ci annuncia anche molto fieramente che da qualche anno anche in Corea è giunta l’autentica pizza italiana. Per volontà del buongustaio Kim Jong-il, infatti, pizzaioli italiani furono invitati a diffondere i loro segreti a Pyongyang circa un decennio fa e recentemente una delegazione di chef coreani è stata mandata a istruirsi a Roma e a Napoli. Non potendo resistere alla curiosità, la sera stessa ci troviamo a testare una delle due pizzerie in città, sorseggiando vino dei castelli romani. Dopo questa inaspettata parentesi italiana è tempo di lasciare la capitale. Cinquanta chilometri più a sud, alla foce del fiume Taedong sorge la città di Nampo. Durante il tragitto a bordo del nostro inconfondibile pullman per stranieri, rimaniamo colpiti dalla particolarità delle autostrade coreane. Viaggiamo su una carreggiata a dodici corsie nonostante l’assenza quasi totale di altri veicoli. Si susseguono check-point militari: senza un permesso del regime è impossibile viaggiare da un paese all’altro. All’improvviso scorgiamo un muro di persone in mezzo alla strada. Sono oltre 3.000 lavoratori incaricati di spolverare il manto stradale per il nostro passaggio, muniti di piccole spazzole fatte di foglie intrecciate. Non possiamo credere ai nostri occhi. Le guide tentano invano di proibirci di scattare foto mentre l’autista accelera suonando il clacson all’impazzata e quasi investendo una ragazza. Per un episodio di questo tipo, possiamo solo immaginare quanti altri ci siano stati sottratti alla vista.
Arriviamo a destinazione, al Ryonggang Hotspa Hotel destinato in passato ai piani alti delle gerarchie del partito. Nelle immediate vicinanze attraversiamo campi brulli e numerose baraccopoli erette nel fango. Qualche ora dopo, immersi in una Jacuzzi mosaicata e contornati dal lusso, ci viene difficile immaginare come la dottrina socialista possa essere conciliata con una tale disparità di tenori di vita.
La visita alla centrale idroelettrica West Sea, collegata a Nampo da una diga di otto chilometri, mette in evidenza alcune delle problematiche attuali del Paese. Ci spiegano che strutture di questo tipo costituiscono una fonte energetica fondamentale. Ma, come spesso succede, ci viene vietato di vedere da vicino i macchinari momentaneamente non funzionanti. È evidente anche a noi, infatti, che il prodotto energetico lordo non riesca a soddisfare il fabbisogno nazionale. La corrente salta in media una decina di volte al giorno anche nella capitale. Ma non è solo l’energia a mancare. A seguito della carestia prolungatasi nel corso degli anni 90 e costata la vita a oltre 3 milioni di persone, il regime ha dovuto affidarsi sempre più ad aiuti umanitari.
Quando ormai stavamo iniziando ad affezionarci al Paese e alle nostre guide, è ora di partire. Durante la cena d’addio ci imbattiamo in una decina di operai bergamaschi. Lavorano per la Zamperla Spa, una ditta italiana che fornisce giostre anche ai vari Disneyland, cui è stata appaltata la costruzione di un parco divertimenti. Un progetto imponente nel cuore della capitale che costerà 20 milioni di dollari. Per chi venga costruito rimane uno dei numerosi quesiti a cui è difficile trovare una risposta in questo misterioso Paese. Nonostante il legame che siamo riusciti a stabilire a livello umano con le nostre guide, rimane la netta sensazione che persista una barriera ideologica insormontabile. Voliamo, liberi finalmente di poter esprimere i nostri pensieri.
Giovanni B. Conte
Ludovico Tallarita