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 2012  aprile 20 Venerdì calendario

2 articoli – IL DILEMMA DEI PARTITI. TRA PAURA (E VOGLIA) DI ANDARE ALLE ELEZIONI — Hanno i sondaggi

2 articoli – IL DILEMMA DEI PARTITI. TRA PAURA (E VOGLIA) DI ANDARE ALLE ELEZIONI — Hanno i sondaggi. Li hanno sempre avuti, ma ultimamente li compulsano con più apprensione e preoccupazione. Al Pd quei dati raccontano una storia lontana anni luce dalla verità che si racconta nei non angusti corridoi che circondano il Palazzo di Montecitorio. Pier Luigi Bersani ha compreso che non ci sono più tavoli su cui giocare una vittoria data per scontata. Il Pd resiste, sta sopra il 20 per cento, il Pdl non raggiunge neanche quella cifra. Ma non sono le percentuali che contano. Al Partito democratico c’è un solo numero che angustia e che fa storia: il 48 per cento degli italiani pensa di non andare a votare. Recuperare un gap del genere è impossibile. Nei quartieri alti del Pdl l’analisi è ancora più sconfortante: il 70 per cento degli elettori del centrodestra non gradisce il governo Monti. E sono questi i numeri che inchiodano i partiti. Sono i numeri che non tranquillizzano Berlusconi, il quale continua a chiedersi, e a chiedere ai fedelissimi: ne vale la pena? E sono gli stessi numeri che angustiano Bersani, il quale si domanda perché non riesce a uscire dalla gabbia dei tecnici (e «gabbia» è parola sua). Allora ci si chiede, anzi lo ha chiesto Mario Monti, ma soprattutto il presidente della Repubblica Giorgio Napolitano: cosa vogliono fare veramente i partiti? Sono le piccole cose che contano. Come la decisione del Pdl di bloccare i lavori per la legge elettorale, altro totem della politica italiana. Perché? A sentire uno che se ne intende, come il politologo Roberto D’Alimonte, la sinistra sta costruendo una legge elettorale per non vincere, ma per costringere tutti a una nuova grande coalizione. Regole che siano valide per inseguire questa prospettiva e per assecondare piani futuri, per un futuro non troppo lontano. La verità continua a essere una sola: a tutti fanno paura le elezioni a ottobre, vista la situazione di incertezza che attraversa i partiti, ma tutti ne sono in qualche modo tentati. In cuor suo Berlusconi le vorrebbe per fare chiarezza in un quadro di cui non riesce a vedere le prospettive. Il Pd va oltre e arriva a superare anche i dubbi. Vorrebbe andare a votare per una serie di motivi che nell’ultima segreteria sono stati enumerati. Primo, Grillo di qui a ottobre non sarà ancora del tutto esploso (come fenomeno elettorale, s’intende). Secondo, lo scontro tra la Lega e il Pdl è ancora aperto, il centrodestra non ha un vero candidato con il quale affrontare la battaglia delle urne. Ma ufficialmente nessuno pronuncia la parola magica: elezioni. Anche se ognuno sa esattamente di che cosa si sta parlando. Il segretario del Partito democratico subodora per forza che qualcosa si sta muovendo, ma per ora tace, acconsente e sostiene il governo Monti. Ma sa bene anche che nel Pd si è già programmato un organigramma per il dopo voto e che tutte le caselle sono state già occupate. L’organigramma al partito democratico lo hanno già fatto. Massimo D’Alema in Europa, nei nuovi panni del commissario europeo. Walter Veltroni alla presidenza della Camera. Beppe Fioroni ed Enrico Letta al governo, Dario Franceschini alla segreteria. Pier Luigi Bersani candidato premier, e, nel caso di un nuovo governo allargato anche nella prossima legislatura, vicepremier. Un patto, questo, a cui tutti i maggiorenti partecipano, fatta eccezione per Rosy Bindi che non sembra affatto insensibile alle profferte esplicite e dichiarate di Antonio Di Pietro. Insomma, a sinistra ognuno ha fretta di mettere le proprie bandierine. A destra c’è maggior cautela. Per dirla con il vicepresidente della Camera Maurizio Lupi: «Il Partito democratico spera che gli facciamo il piacere. Vorrebbero che facessimo cadere Monti, magari perché non ci accontenta sulle frequenze tv, ma non hanno capito niente. È il Pd che vuole le elezioni in ottobre, non certo noi». Maria Teresa Meli «SI RISCHIA IL VOTO A OTTOBRE» — Ignazio La Russa lo vede come lo spintonamento che precede la mossa che dà il via al Palio: «Tutti si posizionano, si sa che al massimo tra un anno si voterà ed è normale che ci sia una certa agitazione». Il problema però è che l’immagine dell’ampia — nonché sempre più indefinita — area di centrodestra è quella di un alveare impazzito. Dove, mentre il tam tam del voto ad ottobre si fa di ora in ora più insistente, tutti cercano tutti e le interpretazioni, le paure o le speranze su quello che sta accadendo divergono. L’unica cosa certa è che Silvio Berlusconi, da dietro le quinte, si sta muovendo. L’ex premier, racconta chi gli ha parlato in queste ore, è sempre più convinto che «si finirà per andare a votare ad ottobre», perché — è il ragionamento fatto con i vertici del partito — per il Pd è l’ultimo treno per vincere le elezioni e respingere l’assalto dell’antipolitica alla Grillo, per Monti è la via d’uscita dall’impasse di un governo in difficoltà che gli permetterebbe di far valere in altri ruoli, anche internazionali, il credito acquisito, per il Pdl è in fondo l’occasione per mantenere una unità interna sempre più a rischio. «Noi — dice un fedelissimo — non dobbiamo andare a votare per vincere, ma per continuare ad esistere: se continua così, verremo spazzati via». Se l’ex premier sia così pessimista è difficile da dire, ma certo i suoi movimenti per affrontare lo scenario del voto anticipato ormai vanno avanti da settimane. Mentre c’è chi, come Daniela Santanchè, quasi prepara il campo a una possibile exit strategy — avvertendo che «se questo resta il governo delle tasse come si sta dimostrando, non può più essere il nostro governo» — e chi, come i firmatari del documento di Pisanu, cerca una sponda verso il Partito della Nazione o comunque un nuovo contenitore che porti tutti in salvo facendo arrabbiare Angelino Alfano, che in pubblico ricorda come il partito dei moderati sia «esattamente il nostro progetto» ma in privato sa che la mossa dei ventinove si sostanzia come ostile. È di quasi tre settimane fa, ma è stato rivelato solo ieri, un pranzo del disgelo tra Berlusconi e Luca Cordero di Montezemolo, presente anche lo stesso Alfano, per parlare certo di Ferrari e aziende e economia, ma soprattutto per chiarirsi le idee su una possibile collaborazione futura. Ai big del Pdl è sembrato «evidente che, se scenderà in campo, Montezemolo lo farà con noi, sicuramente non con Casini», magari con una lista civica nazionale che si affiancherebbe al Pdl perché la sua idea di far scendere in politica una nuova classe dirigente «è in perfetta sintonia con la nostra». La corsa a prendersi pezzi di centro — rilanciata da Casini due giorni fa — e soprattutto a non lasciare al competitor più vicino campo libero è insomma ormai cominciata, anche se molto disordinatamente. «È chiaro — ragiona Maurizio Lupi — che le possibili novità politiche sono formazioni che nascono dalla società civile, come può essere quella di Montezemolo, o aree rappresentate da ministri di questo governo», ai quali mira esplicitamente Casini. E se, come prevedono nel Pdl, entro l’estate il governo sarà costretto a varare «una manovra correttiva da 17 miliardi, come chiede il Fondo Monetario», la somma di debolezze del quadro politico potrebbe davvero provocare il patatrac. Per questo sono al lavoro i pompieri — Paolo Bonaiuti si aggirava in questi giorni tra Camera e Senato per rendere meno esplosiva possibile l’iniziativa di Pisanu —, ma nello stesso tempo tutti si agitano alla ricerca di un approdo possibile. Che per Andrea Ronchi è uno solo: «Dobbiamo fare il Ppe italiano con Angelino Alfano, senza divisioni», ma che per gli ex An che si stanno incontrando spesso in queste ore non è scontato. Perché quando è la paura a dettare le mosse, nessuno sa prevederle fino in fondo. Paola Di Caro