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 2012  aprile 19 Giovedì calendario

L’ANNO ORRIBILE DELLE RAFFINERIE

La benzina a due euro al litro. Nessuno, o quasi, se lo augura. In molti, però, lo ritengono un traguardo inevitabile. Eppure sul banco degli imputati chi produce carburante non ci vuole stare. Il 2012 rischia di essere l’annus horribilis per il settore della raffinazione, non solo italiano, ma anche europeo.
È come se sul comparto si fosse accanito un cocktail di fattori a cui è difficile porre rimedio: la contrazione dei consumi di prodotti raffinati in Europa, l’agguerrita concorrenza asiatica, le tasse governative e le accise, che contribuiscono al 60% circa del prezzo di benzina e gasolio. Infine l’embargo europeo contro l’Iran, che ha penalizzato diverse raffinerie concepite per processare il suo greggio. Risultato: una crisi senza precedenti, che sta spingendo diverse major a a mettere in vendita gli impianti. Chi non vi riesce, a volte è costretto a chiudere. L’esempio più recente è l’annunciata chiusura temporanea di almeno tre raffinerie della svizzera Petroplus, il maggiore raffinatore indipendente europeo. Ed è solo l’ultima di una lunga serie. In Italia Tamoil ha chiuso nel marzo del 2011. Porto Marghera è stata sospesa per sei mesi da novembre, ieri Eni ha sospeso per 12 mesi due linee di produzione a Gela.
A lanciare l’allarme è Augusto Pascucci, segretario generale dell’Unione Italiana Lavoratori della Chimica dell’Energia e del Manifatturiero (Uilcem). «Con i volumi di produzione caduti a 70 milioni di tonnellate l’anno - spiega - quindi ben al di sotto della capacità produttiva, e in assenza di interventi governativi, il tema degli esuberi sarà strutturale. Qualche raffineria, soprattutto quelle private, inevitabilmente chiuderà. Occorre trovare una soluzione per tempo. Nelle 15 raffinerie italiane lavorano 40mila addetti, incluso l’indotto. Stimiamo che il rischio di perdere 8-9mila posti sia reale e quasi imminente».
Ormai sono le stesse compagnie petrolifere a confermare la crisi. Giuseppe Ricci, senior vicepresident Industriale Refining&Marketing Division dell’Eni, non nasconde le difficoltà: «Dai segnali che abbiamo avuto fin dalla fine del 2008 - confermati negli anni successivi - non si tratta più di una crisi congiunturale, bensì strutturale. A fine 2008 siamo usciti dalla cosiddetta "Golden age of refining" (iniziata nel 2003), quando i margini della raffinazione erano elevati». Ma dall’età dell’oro alla crisi il passo stato molto breve. «La crisi - continua Ricci - ha portato a una progressiva contrazione dei consumi, soprattutto in Europa, un mercato che peraltro era già maturo. Il suo apice è stato toccato nei primi due mesi del 2012, quando la domanda di prodotti raffinati è scesa ancora del 6% sul 2011». È stato un declino inesorabile. Nel 2000-2001 l’Italia (dati Uilcem) produceva 136 milioni tonnellate di prodotti raffinati, nel 2007 106 milioni, nel 2010, 90 milioni. L’anno scorso 70 milioni. «Per non incorrere in perdite - precisa Pascucci - gli impianti devono lavorare almeno al 90% della loro capacità produttiva. Ma diversi lavorano al 60-70%, un livello non sostenibile. I margini di raffinazione sono negativi per tutti. I costi lordi si aggirano sui 4 dollari al barile, mentre i ricavi vanno da 1,5 a 2 dollari».
Inevitabile porsi una domanda. Qual è il rischio per l’Italia se dovesse diventare un importatore di prodotti raffinati? «La raffinazione è un asset strategico - precisa Ricci -. L’Italia già dipende fortemente dall’import di greggio e gas. Altra cosa, però, è dipendere dai prodotti finiti, il cui settore è più rigido e limitato». Insomma basterebbe un’improvvisa mancanza di prodotti raffinati per creare il panico sui trasporti, con effetto a cascata sull’economia.
Giancarlo Cogliati, amministratore delegato di Api raffineria, vede nella concorrenza asiatica una delle maggiori minacce: «Negli ultimi anni in Asia sono state costruite grandi raffinerie. L’economia di scala è a loro vantaggio. Senza contare che in Cina, per esempio, il costo del lavoro è dieci volte inferiore. Non solo: le raffinerie cinesi hanno costi di tutela ambientale quasi assenti e spese per la sicurezza molto inferiori. Infine godono di incentivi governativi. Inevitabile che i loro prodotti siano più concorrenziali». Davanti a una simile offensiva le compagnie italiane corrono ai ripari. «Un’attività di costante riduzione dei costi e ottimizzazione degli organici è un processo già avviato - precisa Ricci -. Ma non basta. Occorre un nuovo equilibrio tra capacità installata e consumi. Quando il tasso di utilizzo tornerà all’85-90% della capacità, anziché all’attuale 70%, potremo provare a competere con i prodotti asiatici».
Già svantaggiate per il gap tecnologico - diversi impianti italiani risalgono agli anni ’60 - le raffinerie chiedono al governo di intervenire. «La Carbon Tax rappresenta un’ulteriore penalizzazione - continua Cogliati (Api). Quanto alla Robin tax credo che debba essere ripensata, introducendo dei ribassi e consentendo alle aziende di consolidarla fiscalmente all’interno del Gruppo». «Il nostro suggerimento - aggiunge Zsolt Szalay, amministratore delegato della raffineria Ies di Mantova (gruppo Mol) - è che in Italia ci sia una maggiore coerenza tra le diverse amministrazioni provinciali, regionali e statali. Sarebbe anche opportuno non cambiare le regole a partita iniziata. Avviato un business plan, che richiede investimenti consistenti, è vitale che non ci siano ripensamenti». Ma c’è altro. Oggi chiudere una raffineria costa quasi più che mantenerla inattiva. «Occorrono aiuti da parte del Governo e dell’Europa - aggiunge Pascucci -. Sarà essenziale l’intervento sulla bonifica, il recupero e la riconversione delle aree industriali per usi civili».
A complicare il quadro vi sono poi le direttive sull’uso dei biocarburanti. «Sono un ulteriore aggravio a carico del sistema - spiega Dario Scaffardi, direttore generale di Saras -. Oggi in Italia vi è l’obbligo di avere nei combustibili per autotrazione il 4,5% (in termini energetici) di prodotto di origine "biologica". Secondo i target Ue entro il 2020 dovrebbe salire al 10%. Ciò sottrae produzione alle raffinerie, naturalmente, ma il vero problema è che il biodiesel costa dai 200 ai 400 dollari per tonnellata in più rispetto a quello di origine minerale, che per noi consumatori si traduce in un ulteriore aggravio sul prezzo del diesel. Questo senza alcun reale beneficio per l’ambiente, la riduzione di CO2 così ottenuta in un anno dall’Italia è pari a quella che la Cina produce in 3 ore».