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 2012  aprile 19 Giovedì calendario

Casa nostra – Un giorno gli domandarono: «Se non fossi stato il figlio di Bossi e avessi dovuto lavorare, che lavoro avresti fatto?» Lui fulminò l’interlocutore: «Magari l’imprenditore»

Casa nostra – Un giorno gli domandarono: «Se non fossi stato il figlio di Bossi e avessi dovuto lavorare, che lavoro avresti fatto?» Lui fulminò l’interlocutore: «Magari l’imprenditore». Avesse detto “l’astronauta!” l’effetto sarebbe stato identico. Il “Trota”, per usare l’appellativo che Umberto Bossi appioppò a suo figlio Renzo, sembrava avviato sulla buona strada per ricevere il testimone dall’acciaccato senatùr. «Mai stato a sud di Roma», come disse al CorriereTv nell’agosto del 2010, già a nove anni si era «rifiutato di cantare l’inno di Mameli», secondo quanto confessò alle Invasioni barbariche. Consapevole della “fortuna” toccatagli in sorte: «Avere un maestro come papà». Un papà con un fratello, Franco, e un figlio avuto dalla prima moglie, Riccardo, assunti nel 2004 nelle segreterie dei due europarlamentari leghisti Matteo Salvini e Francesco Speroni. Per non parlare della seconda moglie, Manuela Marrone, considerata da molti più potente dell’Umberto, che dopo essere andata in pensione baby da insegnante alla tenera età di 41 anni (come rivelò nel 1997 il Mondo) non ha mai smesso di insegnare: nel suo istituto privato, la Scuola Bosina, dove si insegna il dialetto e che nel 2010 ha avuto 800 mila euro di finanziamenti pubblici. Ecco perché quando Daria Bignardi gli aveva chiesto “i tre valori in cui credi”, e Renzo aveva replicato «L’onestà» e, poi ancora, «l’onestà» e infine «l’onestà», Bossi junior avrebbe dovuto essere più sincero. E rispondere: «La famiglia». Altro che la mitica Padania. Più italiana di così, la saga dei Bossi non potrebbe essere. E per farsi venire l’orticaria, al capo della Lega sarebbe bastato uno sguardo all’indietro, a «Quel cretino di Garibaldi, la rovina del Nord»: parole sue, naturalmente. Ricciotti e Menotti Garibaldi, i due figli dell’Eroe dei due mondi, furono addirittura deputati contemporaneamente. Cosa che per un soffio non è riuscita nel 2006 a Bobo e Stefania Craxi, figli dell’ex segretario socialista Bettino, che di Garibaldi è stato il più grande testimonial postumo. non si salva nemmeno garibaldi Niente a che vedere con il Trota, naturalmente. A vent’anni, la stessa età che aveva Renzo Bossi mentre, pregustando la futura candidatura al consiglio regionale della Lombardia, dichiarava senza il minimo imbarazzo: «La Lega non è un partito familiare, ma se mi chiama sono pronto», Menotti Garibaldi imbracciava il moschetto in Sicilia, con addosso la camicia rossa dei Mille. Mentre Ricciotti non li aveva ancora compiuti quando guidò la carica dei Cacciatori delle Alpi contro l’esercito austriaco alla battaglia di Bezzecca. Certo, qualche guaio lo combinarono anche loro. Menotti, per esempio, s’indebitò fino al collo per un’operazione fondiaria nell’agro romano e non riusciva a restituire i soldi alle banche che glieli avevano prestati; fra queste, il Banco di Napoli. Da Caprera, suo padre ormai anziano continuava a dichiararsi garante del figlio. Immaginiamo l’imbarazzo. Finché il 13 novembre del 1881 quella banca condonò i debiti “in vista dei titoli di benemerenza della intera famiglia Garibaldi”. Più di un secolo dopo, due Anite Garibaldi si candidarono alle elezioni del 1992, le ultime della prima Repubblica: l’una con il Psdi, l’altra con il Pri. Pronipoti d’arte. Al pari di Enrico La Loggia, oggi presidente della commissione parlamentare sul federalismo fiscale. L’avesse saputo Gaetano La Loggia, il fratello di suo bisnonno che fu ministro con i Borbone… L’avesse saputo suo nonno Enrico La Loggia, sottosegretario nel governo di Luigi Facta… L’avesse saputo suo padre, due volte presidente della Regione siciliana e quattro volte deputato… Ma la politica italiana è piena zeppa di pronipoti e nipoti d’arte. Prendiamo Giacomo Mancini, eletto deputato nel 2006: figlio di Pietro, che si era candidato nel 1994, e nipote di Giacomo, mitico segretario del Partito socialista, parlamentare per dieci legislature e da ministro dei Lavori pubblici padre dell’autostrada Salerno-Reggio Calabria. Giacomo junior, però, è anche bisnipote di Pietro, nel 1921 il primo socialista calabrese a entrare in quell’aula del Parlamento “sorda e grigia”, come la definì qualche tempo dopo in un memorabile discorso Benito Mussolini: nonno di Alessandra Mussolini. Tornando a Giacomo Mancini junior, non si può non ricordare il suo omonimo trisavolo, padre di Pietro senior, bersagliere “biondo e bellissimo” che entrò il 20 settembre del 1870 a Roma attraverso la breccia di Porta Pia. Del tutto ignaro che con quel gesto avrebbe dato origine a una plurisecolare dinastia politica. Anche se il caso, nel familismo all’italiana, non esiste. È un caso che a 43 anni Elisabetta Fatuzzo sia già da due legislature consigliere regionale della Lombardia, unica eletta del Partito pensionati, fondato da suo padre Giancarlo, ex radiotelegrafista ed ex europarlamentare, giusto all’età di 43 anni? È un caso che Jacopo Maria Ferri, figlio dell’ex ministro dei 110 all’ora Enrico Ferri, sia diventato consigliere regionale della Toscana? Per stilare un elenco completo dei “figli” non basterebbe un volume della Treccani. Da Giorgio La Malfa, economista e figlio del grande Ugo, a Carlo Vizzini, figlio del senatore Casimiro, a Rosa Russo Jervolino, figlia dell’ex ministro Raffaele e della ex sottosegretaria Maria de Unterrichter, a Massimo D’Alema, figlio di Giuseppe, a Raffaele Fitto, figlio dell’ex presidente pugliese Salvatore, a Enrico Costa, figlio di quel Raffaele iniziatore delle campagne contro gli sprechi, a Daniela Cardinale, figlia dell’ex ministro Salvatore, a Chiara Moroni, figlia di Sergio, ad Antonio Martino, ex ministro degli Esteri figlio di un ex ministro degli Esteri del calibro di Gaetano Martino, ad Alessandro Forlani, figlio dell’ex segretario Dc Arnaldo, a Franca Chiaromonte, figlia di Gerardo, passando per Mariotto Segni, figlio dell’ex presidente della Repubblica Antonio Segni. Qualcuno è arrivato perfino a esibire le parentele nel curriculum come fossero titoli professionali. Tanto, evidentemente, ci crede. Nel libro Compagni che sbagliano, Gianni Barbacetto riporta un prodigioso frammento del curriculum di Daniela Melchiorre, dove l’ex sottosegretario alla Giustizia nell’ultimo governo Prodi e viceministro mancato con Berlusconi rivendica con orgoglio di essere «Figlia del generale della Guardia di Finanza Melchiorre e nipote del cardinale Bovone». Che i figli prendano in eredità i seggi non capita, ovviamente, solo in Parlamento. Nei consigli comunali c’è solo l’imbarazzo della scelta. In quello di Roma, soltanto per fare un caso, c’è Luca Gramazio, figlio dell’ex parlamentare missino Domenico Gramazio, detto “Er pinguino”. Per non parlare delle Province: nel consiglio provinciale di Campobasso, per esempio, c’era uno scranno occupato da Cristiano Di Pietro, figlio di Antonio, che ora ha traslocato alla Regione Molise. E le Regioni non sono da meno. Capita così che nel Consiglio del Lazio, alla lettera “S”, ci si imbatta in Sbardella Pietro, figlio del capobastone della Dc andreottiana e neofascista della prim’ora, Vittorio. Mentre poco più sopra, alla “R”, si può incrociare Rauti Isabella, figlia dell’ex deputato e fondatore di Ordine Nuovo, Pino Rauti. Nonché moglie del sindaco di Roma Gianni Alemanno. E qui si apre un altro capitolo. Quello delle mogli illustri. Mariella Bocciardo, ex cognata di Silvio Berlusconi in quanto prima moglie del di lui fratello Paolo, è entrata in Parlamento nel 2006 accompagnata dal suo diploma di liceo linguistico: “dirigente di partito” si qualifica nella Navicella. La senatrice Diana De Feo, consorte dell’ex direttore del Tg4 Emilio Fede, berlusconiano a quattro ruote motrici, l’ha seguita un paio d’anni dopo. Da destra a sinistra: in Senato c’è anche Anna Maria Carloni, compagna dell’ex presidente della Regione Campania Antonio Bassolino. Alessandrina Lonardo, al contrario, non ha mai tentato la strada parlamentare. Si è accontentata del Consiglio regionale campano, di cui è stata anche presidente mentre suo marito Clemente Mastella, padre padrone dell’Udeur, era Guardasigilli del governo di Romano Prodi. E per restare nella Regione Campania, è obbligatorio ricordare Annalisa Vessella, eletta consigliere al termine di una campagna elettorale condotta come Annalisa Pisacane: il cognome di suo marito Michele, parlamentare dei Responsabili. Anche lei si è accontentata. Naturalmente, si fa per dire. Ci sono invece figli d’arte che hanno sorprendentemente superato la fama dei genitori. Uno per tutti: Francesco Pionati, che da giornalista del Tg1 intervistava i politici, prima di farsi politico. Ora è deputato a Montecitorio. Suo padre Giovanni era “soltanto” sindaco di Avellino al tempo del terremoto dell’Irpinia. Mentre alcuni non riusciranno mai a sovrastare l’ingombrante eredità della loro parentela. Come Piero Testoni e Giuseppe Cossiga, rispettivamente nipote e figlio dell’ex presidente della Repubblica Francesco Cossiga. Entrambi deputati, piazzati a pochi metri di distanza l’uno dall’altro. Un po’ come Armando Cossutta, che sedeva in Parlamento insieme a sua figlia Maura. Mentre i coniugi Piero Fassino e Anna Maria Serafini occupavano rispettivamente, nello stesso momento, un seggio alla Camera e uno al Senato. Pura coincidenza, si è sempre detto: i due si sono sposati nel 1993, quando la signora Fassino era già parlamentare da sei anni e l’ex segretario diessino non era ancora entrato a Montecitorio. Resta il fatto che in un partito nel quale ci si è dati la regola delle due legislature, grazie alle deroghe previste per personalità particolari, Anna Maria Serafini è alla sesta e il marito non ha potuto completare la quinta essendo stato eletto sindaco di Torino. Ma perché quando si tratta dei politici bisogna cercare sempre il pelo nell’uovo? Verissimo. Non tengono famiglia soltanto loro. Va da sé che in un’Italia refrattaria alla meritocrazia e alla concorrenza, il familismo è una tecnica di collocamento diffusissima. Molto più che in ogni altro Paese avanzato. Vale per i politici, come anche per molte altre categorie… talvolta perfino per i calciatori. Una ricerca di Michele Pelizzari e Jacopo Orsini pubblicata dalle edizioni Bocconi con il titolo Dinastie d’Italia sostiene che il grado di familismo fra medici, avvocati, farmacisti e giornalisti è quattro volte superiore a quello dei lavoratori autonomi. Ma è pur sempre la metà di quello che si può riscontrare fra i professori universitari. Emblematica la storia raccontata nel 2008 in un rapporto dell’allora commissariato anticorruzione (struttura spazzata via dal governo Berlusconi) del prefetto Achille Serra, attuale senatore dell’Udc, a proposito della Jean Monnet di Caserta. Dove, c’era scritto, «frequenti rapporti di parentela, affinità o coniugali legano nel 50 per cento dei casi il corpo docente a personalità del mondo politico, forense o accademico». Il 50 per cento! Semplicemente meravigliosi, poi, alcuni episodi contenuti nel libro Parentopoli. Quando l’università è un affare di famiglia, scritto da Nino Luca del Corriere.it e pubblicato nel 2009 da Marsilio. Come il colloquio avuto con Gennaro Ferrara, ex vicepresidente Udc della giunta provinciale di Napoli nonché rettore della Università Parthenope di Napoli. Ateneo che Repubblica qualificò nel 2007 “delle dieci famiglie”, e che due anni dopo, rivelò il Corriere, aveva firmato con la Uil della Campania un accordo in base al quale bastava essere iscritti a quel sindacato per vedersi riconoscere 60 crediti formativi: un anno di studi regalato grazie a una tessera. La domanda di Luca fu: «Come mai ha portato con sé all’università la seconda moglie, il di lei fratello, la figlia e i mariti delle figlie? ». E la risposta di Ferrara: «Se trattiamo parentopoli in termini scandalistici non va bene». Giusto. Quella è una faccenda serissima, altro che “scandalismo”. Serissima soprattutto quando si parla dei massimi livelli accademici. Per esempio: chi era il preside della facoltà di giurisprudenza che firmò l’accordo con il sindacato? Il giovane professore Federico Alvino, già capogruppo dell’Udc nel consiglio comunale di Napoli e marito di Marilù Ferrara. La figlia di Gennaro Ferrara. Una parentela, che volete che sia? Diverso è quando i parenti che insegnano in una stessa università sono molti di più, come i componenti della famiglia di Giansiro, Gilberto e Lanfranco Massari, ordinari di Economia a Bari, che possono contare su altri sette consanguinei, fra figli e nipoti, nello stesso ateneo. «Probabilmente la tribù accademica più numerosa d’Italia», la definì qualche anno fa il giornalista di Repubblica, Attilio Bolzoni. Regalandoci nello stesso articolo un altro formidabile quadretto barese: «Buongiorno, dov’è la stanza del professore Girone?». «Girone chi?», risponde spazientito il vecchio custode di Economia e Commercio. Girone Giovanni il Magnifico Rettore o Girone Raffaella che è sua figlia? Girone Gianluca che è suo figlio o Girone Sallustio Giulia che è sua moglie? In ordine, stanza numero 3, stanza numero 26, stanza numero 58, stanza numero 13. E aggiunge, sempre più infastidito il custode: «Poi se vuole parlare con un altro parente stretto dei Girone, ci sarebbe pure il dottore Francesco Campobasso, associato di statistica, che è il marito della professoressa Raffaella, quinto piano, stanza numero 19». Coincidenze? E sono coincidenze pure le circostanze di un’altra vicenda universitaria descritta da Striscia la notizia. Siamo sempre all’università di Bari, il cui direttore amministrativo, Giorgio De Santis, ha intorno dodici parenti: la moglie, la figlia, la cognata con relativa sorella e sette nipoti. Il numero comprende anche un fratello recentemente pensionato. Roba da ridurre a una vicenda marginale quella riportata spesso dai giornali che riguarda Luigi Frati, rettore del più grande ateneo d’Europa, la Sapienza di Roma, che offre asilo anche alla moglie Luciana, laureata in lettere e docente di Storia della medicina, la figlia Paola Frati, laureata in giurisprudenza e docente di Medicina Legale, e il figlio cardiologo Giacomo Frati, ora capo della Unità programmatica al Policlinico romano. la parentopoli nei concorsi L’Università non è come la politica. Per entrarvi si devono superare regolari concorsi. Che ovviamente non possono essere preclusi ai familiari. Ma se proprio i concorsi sono una delle maggiori fonti di ricorsi e denunce giudiziarie, mentre le cattedre si affollano di parenti, ci dev’essere pure un motivo. Difficile che sia solo colpa della “caccia alle streghe” di cui si sono sentiti vittima i docenti dell’Università di Bari, al punto da far pubblicare nel 2008 una lettera aperta contro “l’incubo” della persecuzione mediatica per aver visto il loro ateneo finire in prima pagina causa parentopoli. Qualche settimana fa l’università di Pavia ha sospeso la nomina della ricercatrice Silvia Scevola al reparto di chirurgia plastica. Unica partecipante, aveva vinto il concorso per un contratto da cinque anni pagato da una onlus, la Humana forma. Piccolo particolare, suo padre Daniele Scevola, docente di Medicina a Pavia, era uno dei componenti del consiglio direttivo di quella associazione, e sua madre Angela Faga, a sua volta docente di Chirurgia plastica, ne era addirittura presidente. Inutile dire che un mondo come quello delle università italiane, dove l’età dei professori ordinari dagli anni Sessanta in poi è aumentata vertiginosamente indipendentemente dalla qualità, arrivando oggi alla soglia dei sessant’anni, non possono passare inosservate alcune carriere folgoranti. Giovanni Perlingieri, figlio del giurista Pietro Perlingieri e nipote del deputato Costituente Giovanni Perlingieri, è stato protagonista di una delle più veloci performance accademiche. Ricercatore a 24 anni, nel 2001, l’anno seguente, supera il concorso da associato a Cagliari e nel 2004 vince pure quello da ordinario a Padova, per insediarsi alla cattedra della seconda università di Napoli nel 2005, all’età di 29 anni. Un mostro. L’intreccio fra politica e cinema È un mostro pure Michel Martone, oggi viceministro del Lavoro e figlio dell’ex magistrato nonché ex presidente dell’autorità per gli scioperi e della Civit, Antonio Martone. Ricercatore a Modena a 23 anni, associato a Teramo a 27, ordinario a Siena a 29. Scontate le frecciate che gli sono arrivate subito addosso dopo l’infelice uscita sugli “sfigati” che a 28 anni ancora non hanno il pezzo di carta in mano. Velenosissima quella dell’associazione dei ricercatori, Rete29aprile: «Martone? Un tipico prodotto dell’accademia familistica italiana». Lui ha replicato sul proprio sito www.michelmartone.org, dove ha pubblicato anche i verbali della commissione che gli ha fatto l’esame. Il succo: «Non sono un raccomandato». Rarissimo, d’altra parte, che qualcuno dica il contrario. L’ha fatto di recente l’attore Lorenzo Balducci, figlio dell’ex presidente del consiglio superiore dei Lavori pubblici Angelo Balducci, coinvolto nelle inchieste sulla Cricca. «Sì, sono stato raccomandato, ma sul set non mi hanno fatto sconti», ha confessato al Venerdì di Repubblica. «Ho lavorato anche grazie a segnalazioni. Non le avevo mai chieste. Non trovo scandaloso che si possa lavorare grazie a un aiuto, trovo scandaloso che non lo si ammetta». Evviva la sincerità. Balducci non è un figlio d’arte, ma si dà il caso che sua madre Rosanna Thau e Vanessa Pascucci, ossia la consorte di Diego Anemone, personaggio chiave delle inchieste giudiziarie sui “Grandi eventi” gestiti dalla Protezione civile di Guido Bertolaso, fossero socie in affari nella casa di produzione cinematografica Edelweiss. Beneficiaria, nel giro di pochi mesi, di contributi del ministero dei Beni culturali per 2 milioni 175 mila euro per i film Io, Don Giovanni di Carlos Saura e Il sole nero di Krzysztof Zanussi: pellicole nelle quali ha recitato Lorenzo Balducci. Il quale ha avuto una parte anche in un terzo film (Last minute Marocco) prodotto da un’altra società di cui era socia la madre, la Italian dreams factory, destinataria a sua volta di un contributo pubblico di 1,8 milioni. Balducci junior non è un figlio d’arte convenzionale. Nel senso che l’arte nella quale è specializzato il suo già potente genitore non è la stessa da lui praticata. Ne sa qualcosa anche l’attore Fabrizio Gifuni, figlio dell’ex segretario generale Gaetano Gifuni. Come pure il suo collega Lorenzo Amato, figlio dell’ex presidente del Consiglio e più volte ministro Giuliano Amato. Quanto il cognome ha influito sulle loro carriere? Boh. Il fatto è che in questo campo il cognome, al confronto del talento, conta quasi zero. A meno che l’arte del padre e del figlio non sia la medesima. In quel caso, dà accesso a una corsia preferenziale. Chi dice il contrario, mente. Il figlio di Lucia Bosè e del torero Dominguin, Miguel Bosè, porta un cognome pesante. Ma ci ha messo del suo. E nessuno può affermare che il suo successo sia merito del cognome. Il mondo dello spettacolo è pieno di attori e musicisti che partendo dalla famiglia hanno preso la strada giusta. Qualche nome? Alessandro Gassman, figlio del grande Vittorio. Chiara Mastroianni, figlia di Marcello Mastroianni e Catherine Deneuve. Christian De Sica, figlio di Vittorio. Violante Placido, figlia di Michele: ex poliziotto discendente del “brigante” lucano Carmine Crocco. Giovanna Mezzogiorno, figlia di Vittorio. Amanda Sandrelli, figlia di Stefania Sandrelli e Gino Paoli. Claudio Amendola, figlio del famoso doppiatore e attore Ferruccio. Asia Argento, figlia del regista Dario. E potremmo andare avanti all’infinito, con interminabili catene familiari. Gianmarco, Maria Sole e Ricky Tognazzi, per esempio. I produttori Francesco, Francesca e Raffaella De Laurentiis, figli di Dino de Laurentiis e Silvana Mangano. Andrea, Carlo, Marina e Cristina Giordana, figli del regista Claudio Gora: al secolo Emilio Giordana… Certo, che il talento si trasferisca automaticamente dai genitori ai figli non è scontato. Poi c’è il carattere, le aspirazioni, la determinazione. E il caso. Il successo di Adriano Giannini non è certo paragonabile a quello di suo padre, Giancarlo Giannini. Né quello di Gianluca Guidi a quello di Johnny Dorelli, che gli ha dato i natali. E neppure a Rosita e Rosalinda Celentano è andata come al padre Adriano e alla madre, Claudia Mori. Idem si può dire per la figlia di Lino Banfi, Rosanna. Per il figlio di Dodi Battaglia dei Pooh, Daniele Battaglia, vincitore dell’Isola dei famosi nel 2010. E ci fermiamo. Di qui si potrebbe arrivare a chissà dove. Perfino alla politica, tanto quei mondi, grazie a una tivù pubblica controllata dai partiti, si toccano. Ci limitiamo a ricordare come per la Rai abbia lavorato, come hanno scritto i giornali, anche una società di Francesca Frau: madre di Giancarlo, titolare della casa di Montecarlo lasciata in eredità ad Alleanza nazionale dalla contessa Colleoni, nonché di Elisabetta Tulliani, compagna del presidente della Camera Gianfranco Fini. Ma niente paura: i figli d’arte sono dappertutto. Anche fra gli enigmisti. Alessandro e Stefano Bartezzaghi, per dirne una, sono figli del grande Pietro Bartezzaghi, re del cruciverba. Genio assoluto. A proposito, anche mio padre era giornalista. Sergio Rizzo. Illustrazioni di Beppe Giacobbe (ha collaborato Matteo Marchetti)