Massimo Gaggi, Corriere della Sera 19/04/2012, 19 aprile 2012
AZIONISTI CITIGROUP IN RIVOLTA. BOCCIATI I BONUS PER I MANAGER
Adesso il capo di Citigroup Vikram Pandit, che ha già incassato la parte in contanti del suo «superbonus» (circa 5 milioni di dollari su un totale di 14,9 milioni per il 2011), non sa bene cosa fare. La rivolta degli azionisti che hanno bocciato la politica retributiva della grande banca Usa ha lasciato tutti senza fiato perché il voto, benché non vincolante giuridicamente, è un evento senza precedenti per le grandi istituzioni di Wall Street.
«È una cosa seria, bisogna riflettere» ha commentato il presidente uscente della banca Richard Parsons (la stessa assemblea che ha bocciato lo stipendio dell’amministratore delegato Pandit, ha scelto Michael O’Neill come successore di Parsons). Per Eleanor Bloxham, capo della società di consulenza Value Alliance, «questo è un voto storico», mentre secondo l’economista «liberal» Robert Reich, ministro del Lavoro nella Casa Bianca di Bill Clinton, comincia a cambiare quella cultura che ha portato a considerare normale retribuire i capi delle aziende con compensi pari a 300 o 400 volte il salario del loro dipendente medio.
Il voto ha sorpreso tutti perché fin qui l’ostinazione delle grandi istituzioni finanziarie a non cambiare radicalmente le loro politiche retributive (al di là di qualche pur significativa «limatura») non era stata contrastata dai grandi azionisti. Qualche segnale di rivolta c’era stato in Gran Bretagna (alla compagnia petrolifera Bp dove, peraltro, la contestazione è subito rientrata e alla Barclays che terrà la sua assemblea il 27 aprile), ma negli Usa i segnali erano stati molto deboli: la legge Dodd-Frank, la riforma dei mercati varata dal Congresso dopo il «crac» del 2008, dà la possibilità agli azionisti di esprimere un voto (consultivo) sulle politiche retributive delle loro società, ma fin qui nel 98% dei casi stipendi e «bonus» sono stati approvati. Le poche bocciature hanno riguardato solo società minori.
Alla Goldman Sachs, Lloyd Blankfein ha ottenuto un compenso di 12 milioni di dollari: senza troppe contestazioni anche perché ha accettato un taglio dei 35% rispetto all’anno prima. Meno 25% anche per James Gorman di Morgan Stanley (che ha avuto 10,5 milioni), mentre Jamie Dimon — che guida JP Morgan Chase, la banca più in salute — ha respinto tutti gli inviti all’«austerity» e ha incassato senza battere ciglio (e senza contestazioni) ben 23 milioni di dollari: una cifra 67 volte superiore a quella media prevista per gli altri manager e broker dell’istituto.
La rivolta di Citigroup (55% degli azionisti contro il «superbonus») ha colpito anche perché Pandit, protagonista di una difficile opera di ristrutturazione e risanamento della banca, nei due anni precedenti (2009-10) si era autoridotto lo stipendio a un solo dollaro e, a differenza dei suoi colleghi, aveva accettato senza riserve i nuovi controlli introdotti dal Congresso: unico banchiere presente alla firma della legge Dodd-Frank, Pandit si era ostentatamente seduto in prima fila.
Probabilmente il finanziere di origine indiana paga, oltre a una diffusa esasperazione dei risparmiatori, il fatto che la banca non ha collegato i compensi al raggiungimento di soddisfacenti risultati in termini di redditività: Vikram Pandit è un personaggio stimato, un buon banchiere che ha ereditato una situazione catastrofica ed è riuscito a rimettere le cose in ordine, restituendo al Tesoro molti dei miliardi avuti in prestito ai tempi del salvataggio del sistema finanziario. Rimane il fatto che, dal 2006 ad oggi, il titolo Citigroup ha perso addirittura il 93% del suo valore. «Gli amministratori delegati meritano un compenso adeguato, ma una cosa è una buona retribuzione, un’altra una retribuzione oscena» ha detto al New York Times Brian Wenzinger, un gestore di fondi di Filadelfia che ha votato contro il «megabonus» di Pandit insieme a grandi fondi pensione come il californiano Calpers e il Florida State Board of Administration.
Rivolta momentanea o inizio di una vera rivoluzione, influenzata anche dal mutamento di clima culturale indotto da fenomeni come «Occupy Wall Street»? I banchieri di Manhattan all’improvviso si sentono sotto assedio: la prova del fuoco il 9 maggio quando l’assemblea della Bank of America, altro istituto in grande difficoltà, voterà sui 7 milioni di retribuzione (meno dei 10 dell’anno prima) concessi al suo capo, Brian Moynihan.
Massimo Gaggi