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 2012  aprile 19 Giovedì calendario

LA VITA FELICE DEI SINGLE (NON NEI FILM E NEI ROMANZI)

Un libro di sociologia basato su una ricerca internazionale lunga sette anni, 288 pagine di lettura non sempre agilissima che generalmente aspirerebbero a una menzione su riviste specializzate come Psychology Today è un candidato improbabile per diventare il libro del momento, al centro del dibattito sui media di largo consumo: ma negli Stati Uniti è successo esattamente questo a Going Solo: The Extraordinary Rise and Surprising Appeal of Living Alone (ed. Penguin) del docente della New York University Eric Klinenberg.
Dal New York Times al Wall Street Journal passando per un lunghissimo articolo sull’ultimo New Yorker, l’America riflette sulla tesi di fondo — il netto aumento di coloro che vivono da soli per una serie complessa di motivi demografici, tecnologici ed economici — e sulla sua conseguenza: che se da una parte viviamo da soli in sempre maggior numero (meno matrimoni, più divorzi, più incertezza, l’allungamento della vita che inevitabilmente crea vedovi e vedove «single di ritorno»), dall’altra la cultura popolare e i media propongono modelli basati sulla figura del (o della) single, di ogni età, come di una figura triste se non tragicamente macchiettistica.
Una psicologa del Mit, Sherry Turkle, illustra nel dettaglio in Insieme ma soli. Perché ci aspettiamo sempre più dalla tecnologia e sempre meno dagli altri (ed. Codice) che la tecnologia — al netto dei social network — ci isola, confermando quel che scrisse dodici anni fa un altro libro che fece discutere, Capitale sociale e individualismo. Crisi e rinascita della cultura civica in America (ed. Il Mulino) di Robert Putnam, professore di Harvard che analizzò l’erosione moderna del «capitale sociale». Dall’altra parte, la più recente pietra tombale mediatica sull’idea che vivere da soli sia una scelta se non consigliabile almeno decorosa è arrivata negli Stati Uniti domenica scorsa con la messa in onda della prima puntata del telefilm Girls. La trama: quattro amiche ventenni, coinquiline a New York, devono fare i conti con fidanzati impresentabili (e cioè: sempre meglio che stare da sole), perdita del lavoro, gravidanze a sorpresa, e genitori che (peraltro comprensibilmente) si rifiutano di continuare a mantenerle. Interessante il modo realistico con cui si racconta come le ragazze — una delle protagoniste e autrice della sceneggiatura e regista, Lena Dunham, ha 25 anni — che hanno visto Sex and the City al liceo scoprano più tardi che New York non è la città di quel serial, ma è messa in chiaro da subito la scelta di campo: senza le amiche con cui confessarsi — generalmente nell’affollata toilette dell’appartamento — la vita sarebbe insopportabile tra genitori renitenti e fidanzati obiettivamente molto laidi interessati soltanto al sesso.
In testa contemporaneamente alle classifiche americane dei libri bestseller e del botteghino cinematografico c’è la stessa opera: The Hunger Games, prima puntata della saga orwelliana della scrittrice Suzanne Collins. La scena clou vede i due protagonisti — afflitti da un futuro da incubo nel quale i poveri muoiono di fame e devono ammazzarsi l’un l’altro per l’intrattenimento delle classi agiate fino alla vittoria in una sorta di olimpiade della sopravvivenza — preferire il suicidio all’assassinio del partner. E così anche l’apologo sulla solitudine dell’umanità futura trova una specie di lieto fine — vengono risparmiati e dichiarati vincitori ex aequo. In un altro telefilm di grande influenza mediatica, Mad Men, il protagonista che dopo aver divorziato era scivolato nell’abbruttimento è finalmente sereno, si è risposato (poco importa che lei si spogli davanti ai suoi amici e lo accusi di essere «un vecchio»). Sempre meglio, è la tesi, della volta che da single aveva passato il giorno del Ringraziamento in un monolocale lurido a farsi schiaffeggiare da una prostituta mentre l’ex moglie pranzava felice con i figli e il nuovo marito. Se non bastasse a definire i contorni della guerra pop a chi ha scelto la solitudine, basta ricordare come l’anno scorso una delle commedie romantiche più discusse è stata Crazy, Stupid, Love con una micidiale tesi di fondo (l’attore giovane del momento, Ryan Gosling, nei panni di un ricco playboy trova la felicità soltanto fidanzandosi, e l’amico separato sogna solo di riconquistare la ex poiché le single si rivelano delle squilibrate). Il probabile successone della prossima estate americana (in autunno in Italia)? Il film Ted dell’autore del cartoon I Griffin, con il protagonista trentenne che non riesce a staccarsi dal suo orsetto (parlante) e rischia di perdere la fidanzata che vorrebbe vivere con lui. L’artista musicale numero uno al mondo? L’inglese Adele, canzoni tristissime dedicate al ragazzo che la abbandonò (e lei rivorrebbe).
Addio così alla mitologia — molto americana — dell’autosufficienza e della lotta dell’individuo solo contro tutti, idea fortemente letteraria da Ralph Waldo Emerson a Herman Melville a Ernest Hemingway. E il poeta dei Beat, Jack Kerouac, scrisse Angeli di desolazione tutto solo nei boschi, senza neanche un iPad.
Matteo Persivale