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 2012  aprile 19 Giovedì calendario

IL «MOSTRO» SBRANATO DA MEDIA E FEMMINISTE


Dominique Strauss-Kahn, ex direttore generale del Fondo Monetario Internazionale, ex candidabile alle presidenziali francesi, è un uomo finito. La sua catastrofe ebbe inizio il 14 maggio del 2011, quando nella suite 2806 dell’Hotel Sofitel di New York consumò un rapporto sessuale – una fellatio, per la precisione – con la cameriera del piano, Nafissatou Diallo, nata in Guinea, che lo accusò di stupro. Fu arrestato, si dimise e Christine Lagarde, non casualmente una donna, divenne direttrice del Fondo. Il 23 agosto il procuratore Cyrus Vance Jr. archiviò il caso annunciando il non luogo a procedere contro Strauss-Kahn. La testimone d’accusa, sulla cui sola parola si basava l’imputazione, aveva ripetutamente mentito. Ma per la maggioranza dei commentatori e la stragrande maggioranza delle femministe, Dominique Strauss-Kahn era marchiato. Stupratore e della peggiore specie: arrogante, potente, ricco.
Com’è possibile che un innocente, ché tale è oggi Strauss-Kahn, veda la sua immagine pubblica completamente infangata? Se si vuole capirne le ragioni, bisogna leggere il coraggioso pamphlet della giurista francese Marcela Iacub,Una società di stupratori? (Medusa, pp. 102, euro 11).
Iacub individua senza indugi i due artefici della mostrificazione dell’ex direttore dell’FMI: i media e i movimenti femministi. Entrambi hanno manipolato la vicenda con la più spericolata disinvoltura verso le garanzie dello stato di diritto. Non importava appurare la verità, ma sostenere due tipi di argomenti. Quello propalato da molti giornali, francesi ma non solo, «tenta di interpretare le menzogne di Nafissatou Diallo come metafore di una forma di violenza che avrebbe subito a causa della disuguaglianza sociale rispetto al suo aggressore». È uno schema ben noto, una trasposizione sessuale della dialettica servo- padrone. Comunque si siano svolti i fatti, la disuguaglianza di classe tra un ricco e potente tecnocrate e una cameriera di origine africana designa un sopruso. Non è nemmeno possibile immaginare un piano di parità, dove la parola dell’uno valga quanto quella dell’altra.
La stessa circostanza che Strauss-Kahn abbia potuto scaricare «un’eiaculazione facciale», consensuale o meno non importa, su una donna di classe così inferiore, lo rende colpevole. Scrive Iacub: «L’ipotesi, avanzata tra gli altri dallo scrittore Mark Weitzmann nel giornale Libération, è che la giovane donna sarebbe stata sopraffatta dalla potenza dell’uomo, della sua classe, della sua razza, del suo status. Il suo consenso non sarebbe dunque stato libero, ma estorto. È per questo che, invece di difendersi dall’aggressione, si sarebbe accontentata di dire al suo presunto aggressore: “Please, I don’t want to lose my job” (per favore, non voglio perdere il posto)”». Ma, rileva Iacub, «questa teoria fonda la costrizione su un abuso di potere non reale – perché la giovane donna non era agli ordini dell’ex direttore generale dell’FMI, e le eventuali sanzioni che poteva riceverne erano assai indirette». Non solo, la donna, tutt’altro che ridotta a uno stato di servilismo dall’aggressore, lo denuncia immediatamente dopo il rapporto.
Ma lasciamo per un momento le caricature della lotta di classe imbastite dalla stampa progressista. Occupiamoci delle femministe. Che sono a destra – la prima personalità ad attaccare pubblicamente Strauss-Kahn fu Marine Le Pen – e a sinistra, unite nel desiderio di abolire la presunzione d’innocenza nelle denunce per stupro, sulla base della convinzione che «se la legge e i giudici non fossero sessisti, dovrebbero concedere alle sue parole (della denunciante, ndr) una presunzione irrefragabile di verità». In altre parole: non un’indagine, ma la donna che denuncia uno stupro è in se stessa garanzia della verità di quanto riferisce. Una tautologia che, se accolta, avrebbe portato Strauss-Kahn a scontare fino a 74 anni di carcere. «Ciò che le militanti hanno denunciato è l’esistenza stessa di un esame riguardo la credibilità della parola accusatrice, perché, ai loro occhi, una donna non può mentire quando accusa un uomo di un tale crimine. E poco importa che Nafissatou Diallo sia potuta essere infedele alla verità su molti punti, ivi comprese le circostanze precise dell’aggressione. In quanto accusatrice di stupro, la potenza della sua parola resta intatta».
In questa visione mistica della donna che, denunciando uno stupro, per ciò stesso non può che essere nella verità, «la parola della donna che dice “sono stata stuprata da un tale” si presenta come quella di un oracolo, o di un essere le cui asserzioni rimangono fuori dalle contingenze spaziali e temporali dei comuni mortali. Ella, per superare il trauma, dichiara e vuole che l’accusato termini i suoi giorni in prigione». Dunque, per un meccanismo psicologico implacabile – il superamento del trauma dello stupro – la donna non può mentire: quando accusa qualcuno di violenza carnale, dice il vero.
Questa l’assurdità delle femministe, sostenuta ad esempio dall’ex procuratrice Lisa Friel, o dalla scrittrice Clémentine Autain, teorica della «sincope psichica», quello stato di sudditanza psicologica che impedirebbe alla stuprata di negare il suo consenso e ribellarsi, con la grave conseguenza che distinguere tra rapporti consensuali e non (dunque veri stupri) di nuovo ricadrebbe tutto nella soggettività della donna. Con tanti saluti ai risultati d’indagine e alle garanzie della difesa...
Peraltro, la mobilitazione femminista c’è stata anche in Italia. Lidia Ravera, dopo il suo rilascio, definì Strauss-Kahn un «maschio alfa» (e in quanto tale indegno di diritto alla difesa) che «si era servito del corpo della cameriera non diversamente da come aveva appena fatto con i sanitari». Ida Dominijanni scrisse che l’accusatrice era stata screditata (non che aveva testimoniato il falso), «antica arma di stupratori e loro difensori». Maria Laura Rodotà, infine, si stupiva che Carmen Llera, amica dell’accusato, «corresse in suo aiuto».

Giordano Tedoldi