Imma Vitelli, Vanity Fair n. 16 25/4/2012, 25 aprile 2012
Il momento della verità, per Asma al Assad, venne lo scorso autunno. Era chiaro da mesi, ormai, cosa stesse accadendo: la famiglia di suo marito, al potere da 40 anni, aveva accolto la ribellione come ogni mafia che si rispetti: col piombo
Il momento della verità, per Asma al Assad, venne lo scorso autunno. Era chiaro da mesi, ormai, cosa stesse accadendo: la famiglia di suo marito, al potere da 40 anni, aveva accolto la ribellione come ogni mafia che si rispetti: col piombo. Quel giorno di ottobre, a Damasco, la moglie del presidente convocò nel suo ufficio un gruppo di cooperanti inglesi: loro erano stati a Homs, la sua città d’origine. Loro sapevano. Ascoltò storie terrificanti; di bombardamenti, di esecuzioni, di torture, senza batter ciglio. «Non mosse un muscolo», dice uno dei cooperanti, rintracciato a Beirut. «Era come se stessimo parlando delle previsioni del tempo». Era troppo tardi per fare qualcosa, dal suo punto di vista. I ponti levatoi erano ormai alzati a impedire la fuga sua e dei suoi tre figli. Ma è difficile credere che non l’avesse messo in conto, trasferendosi a Damasco, un angolo di mondo dove i conti si regolano con la forza. «È che Asma voleva essere una principessa», dice Andrew Tabler, un giornalista americano che ha vissuto in Siria e che ha lavorato per la signora. Prima che diventasse la Maria Antonietta di Siria, la strega, la cattiva, Asma al Assad era una delle più vezzeggiate prime mogli della nostra era. Compariva, glamorous, su Vogue America, sognante, dentro una morbida pashmina. Altri rotocalchi la paragonavano a Lady Diana, una somiglianza che lei certamente aveva contribuito a diffondere, con un album di sue foto, finito su YouTube, in cui è intenta a soccorrere anziani, a consolare bimbi malati, a piantare fiori in giardino, e a sorridere sempre, radiosa, al fianco del marito. I sorrisi, anche ora che sono fuori luogo, non sono mai finiti. Ed è questo che le si rimprovera: di essere rimasta – durante 13 mesi di rivoluzione e di repressione – fedele al suo sogno, dentro il castello assediato. Di più: di far parte di una banda che reagisce all’anelito di libertà del popolo con i mezzi con cui reagivano i nobili di un tempo: il fuoco. La nostra delusione – ma come? resta lì? – è frutto della nostra illusione: che Asma la londinese, l’analista finanziaria in abitini Chanel e tacchi Louboutin, fosse una donna moderna, e non la sposa di uno spietato tiranno mediorientale. Non le aveva forse, la presidenza della Repubblica italiana, concesso una medaglia per la sua opera umanitaria? E il rettore della Sapienza di Roma non le aveva tributato addirittura un dottorato honoris causa? Da quando la maschera è caduta, e la famiglia si dimostra pubblicamente mafia, ad Asma si rinfaccia di essere chi è sempre stata: la giovane ambiziosa moglie di un rampollo di una cosca che si è fatta Stato. Ma per capire Asma, e la sua tragedia, è necessario un passo indietro; altrimenti ci sfugge la scena di lei che compulsa i siti dei designer di lusso a Londra e a Parigi, di lei che vuota le carte di credito del signor presidente, di lei che ordina collane di gemme e diamanti, mentre a pochi chilometri i ceffi della presidenza versano sui marciapiedi il sangue di innocenti. Prima che diventasse una Assad – AAA come si firma nelle email intercettate dagli attivisti e pubblicate dal Guardian di Londra qualche settimana fa – Asma al Akhras era la figlia di una coppia di siriani di Homs. Il papà, Fawaz, aveva studiato Medicina al Cairo, poi si era trasferito a Londra, dove la mamma era impiegata all’ambasciata siriana. Asma è la primogenita, nasce nel 1975. Cresce nel sobborgo londinese di Ealing, nella noia architettonica della classe media, file e file di casette uguali e posto auto. Studia al Queens College, una scuola privata, e trascorre le vacanze dai nonni in Siria, e quando torna a casa, anno dopo anno, gli amici le chiedono: dove hai detto che sei stata? A casa parlano arabo, in un tempo in cui gli arabi, nell’immaginario occidentale, sono fanatici barbuti dediti al martirio, anche a causa delle dittature al potere da decenni. La ragazza è in gamba; si laurea in Scienze informatiche; i calcoli le si addicono. Prende il largo in quell’oceano di squali che è il mondo delle banche d’affari. A 25 anni, lavora alla JP Morgan, immersa nei conti e nei grafici, tutta dedita alla sua scalata, che si sarebbe senz’altro compiuta, non fosse stato per un incontro, un inciampo, il fatale avvistamento della sua scarpina di cristallo. Il Principe si chiama Bashar. Lo conosce nei circoli siriani a Londra, all’estero, si sa, è più facile mischiarsi. Lui è allampanato e timido, all’apparenza perfino un po’ imbranato; non è un drago. Studia oftalmologia, spera di sfuggire ai traffici di famiglia. L’aspirante medico è il secondogenito della Volpe di Damasco, uno dei più astuti despoti arabi, Hafez al Assad. Nel 1982 fece stirare, stirare, letteralmente, coi carri armati, migliaia di persone, chi dice diecimila, chi ventimila, a Hama. Il loro peccato, come quello dei siriani contemporanei, era stato quello di essersi ribellati. Bashar vorrebbe fare altro, non ha la stoffa del satrapo, è chiaro. Ma non realizzerà mai la fuga dalla casa madre, per una disdetta, un tiro mancino, lo sgambetto della vita per il quale alla fine pagherà il conto dei peccati della stirpe. Accade che suo fratello Basil, una vera carogna, l’erede designato, si schianti con l’auto in autostrada e che il padre sia costretto a ripiegare sul figlio ingenuo, allampanato. Asma comincia a frequentarlo, nell’ombra. Al lavoro, quel lavoro per cui fino ad allora ha vissuto, cominciano a notare le sue assenze: «Ma io non dicevo niente. Che potevo dire? Che uscivo con il figlio di un presidente?», dirà compiaciuta a Vogue America. Asma ci esce da un pezzo quando a Damasco muore il presidente e il Parlamento cambia la Costituzione per permettere a Bashar di succedergli. Ha solo 35 anni, e la legge prevede che il capo dello Stato debba averne almeno 40. È così che l’aspirante oftalmologo diventa il nuovo padrino, con il 97 per cento dei voti, nel luglio del 2000. Qualche mese dopo, a dicembre, in gran segreto, nessuna festa, nessuna foto, l’analista finanziaria e il rampollo si sposano, contro il parere del clan, che poi è una setta: quella della minoranza alawita. Asma invece è sunnita, come la maggioranza oppressa, come la città di suo padre, Homs, alla cui distruzione assisterà, anni dopo, pietrificata, ormai ostaggio della sua scarpina. Ma prima che la storia le si rivoltasse contro, lei sapeva e godeva: sapeva che aveva sposato il figlio del boss, la cui fazione dominava un territorio di 22 milioni di persone. Sapeva che il cognato, Maher al Assad, era l’uomo della forza, il capo delle guardie presidenziali e paramilitari, che il cugino Rami Makhlouf era il responsabile degli affari e che Anisa Makhlouf, la madre di Bashar, sua suocera, era la matrona, l’imperiosa matriarca della baracca. I vantaggi, per dieci anni, sono mirabolanti. Il padre riceve in dono dal presidente un lotto di terra in una zona prestigiosa di Damasco, Yafoor; ricambierà il favore ammannendo consigli tremendi in questi mesi amari: su come fare meglio propaganda, su come smentire le immagini delle torture sui corpi dei bambini. La madre, Sahar al Atry, da impiegata che era all’ambasciata siriana, viene promossa all’improvviso diplomatica, incassa la pensione rivalutata, e si dimette. Ma per capire il mondo dorato di Asma, vi racconterò di un suo fratello, di cui mi hanno parlato più fonti di Damasco: Eyad. Costui decide di sposarsi, e sceglie come location i fasti di un museo, uno storico palazzo, nell’antico quartiere della capitale: il castello Azm. Non avendo Asma avuto un degno matrimonio, e avendo lei ormai partorito la discendenza degli Assad, il governo si rifà formando un comitato che si occupi delle nozze di Eyad. A questo comitato partecipano il ministro della Cultura, il ministro dell’Informazione, il ministro del Turismo, e il capo della polizia municipale di Damasco. Un mese prima del gran giorno, i ministri in conclave ordinano ai mercanti della zona di abbellire i bazar a loro spese affinché il reale cognato abbia una cornice adeguata. Il reale cognato, non contento, avanza anche un’altra richiesta: quella di un ingresso reale «in coppa» a un cammello nel cortile del museo che, tuttavia, risalendo al Settecento, ha una porticina piccola, inadeguata. E così il comitato ministeriale stabilisce, con i timbri appropriati, che in effetti i vincoli delle Belle Arti possono subire una sospensione: la porticina viene smantellata, un nuovo portone assemblato all’uopo, e il reale cognato può mettere in scena il suo reale ingresso in groppa a un dromedario. Forse è per questo che il factotum londinese di Asma, l’uomo che lei spedisce da Harrods a controllare che quel certo vaso Ming sia davvero – come dice il sito – in saldo, usa il nickname Party party per l’indirizzo elettronico della first lady. Ed è forse ora meno oscuro come sia stato possibile per la ragazza di Ealing finire nella lista nera dell’Unione Europea, che le ha imposto il divieto di viaggiare, e di fare acquisti con carte di credito. Non è stata una buona idea per lei scrivere, in una email a un’amica: «Il vero dittatore sono io. Lui non ha scelta». Lui, il presidente, si rivela meno calcolatore della moglie, più provato. Dopotutto era uno che aveva scelto l’oftalmologia per la sua precisione, calma, tranquillità, mancanza di sangue, e ora si ritrova sulla coscienza novemila morti. Definisce le sue riforme, le riforme farsa che la famiglia gli attribuisce, con il loro nome: spazzatura. Si consola con volgari giochi di parole; scrive che non c’è differenza, in Siria, tra le «elezioni» e le «erezioni». Manda a sua moglie una canzone, che ha scaricato da iTunes, di un cantante country americano, tale Blake Shelton, e scrive anche le parole: «Sono un disastro che cammina/ Ho fatto un casino/La persona che sono stata negli ultimi tempi/Non è quella che voglio essere». Tutto questo, mentre, a Homs, la gente seppellisce i morti, di notte, in fosse comuni. In quegli stessi giorni, Asma spedisce a un’amica una email dal titolo «Le scarpe di Christian Louboutin stanno per arrivare». Un modello le pare allettante, con il tacco 16 tempestato di cristalli, costo 4.000 euro. All’amica scrive: «Se c’è qualcosa che ti interessa fammi sapere, sono pezzi esclusivi, non per il pubblico». E l’amica, secca: «Sfortunatamente non credo potranno essere indossate molto presto». A volte, nel delirio di candelabri, gioielli e vasi, nella sua mente la realtà fa un timido capolino. Avviene quando spedisce al marito il link a un sito che vende giubbotti antiproiettile. Leggendo le sue email, penso a quanta negazione sia necessaria per un così lungo bivacco sull’abisso. Adesso che è prigioniera di se stessa e del suo ruolo, trattata alla stregua della moglie di Ceausescu, mi domando se Asma al Akhras, l’analista finanziaria che voleva essere principessa, ogni tanto non maledica la sua scarpina da Cenerentola; se insomma si chieda, qualche volta, tra uno shopping e l’altro, se il reame valesse la pena di tutto questo strazio. Imma Vitelli