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 2012  aprile 25 Mercoledì calendario

«La sconfitta è come la raccolta dei rifiuti: puoi trasformarla in qualcosa di utile, ma resta sempre immondizia»

«La sconfitta è come la raccolta dei rifiuti: puoi trasformarla in qualcosa di utile, ma resta sempre immondizia». Perdere è così terribile? «La voglia di vincere a ogni costo può sembrare qualcosa che stravolge il concetto di sport, ma la vittoria per me resta l’ossessione più forte. Sfida, competitività, successo, forza di volontà sono gli ingredienti del mio doping naturale. Quando perdo, il dolore è insopportabile». Non sta esagerando? «Guardi che odiare la sconfitta mi è stato di grande aiuto. Elaborarla mi è servito a trovare dentro di me gli stimoli per diventare l’uomo che sono. Quando ero bambino, il calcio non era solo un pensiero fisso: era l’unico modo per dimostrare che potevo essere il più forte, che la timidezza finiva in un angolo, che in qualcosa ero in grado di primeggiare. Per questo perdere era un fallimento doppio». L’ha sconfitta con il calcio, la timidezza. «Anche con il ping-pong. Al mio paese (Saccon, frazione di San Vendemiano, provincia di Treviso, ndr) vincevo sempre, ma quando a 13 anni arrivai in collegio a Padova, le cose cambiarono. Quando andavo ai vantaggi, 20 a 20, la mano mi tremava, e capitava di perdere. L’ansia mi dominava perché non credevo abbastanza nelle mie possibilità, non volevo veramente quei punti. Così ho imparato a estraniarmi e ho maturato la freddezza. Quell’esperienza mi è servita ogni volta che ho calciato un rigore. E, quando ho sbagliato, è stato sempre per la leggerezza della mia scelta». Sotto i nostri calci al pallone, il prato è rasato alla perfezione, come di rado capita negli stadi italiani. Per incontrare Alessandro Del Piero – il giorno dopo la sua settecentesima partita con la maglia della Juventus e il suo gol numero 288 in bianconero, 318 in carriera (quello del 2-1 con la Lazio) – infatti abbiamo scelto il green della buca 18 del Circolo Golf Torino, nel parco naturale La Mandria. Lontano dai tifosi e dal loro slogan – «C’è un solo capitano» – ripetuto ossessivamente in questi giorni per esorcizzare il pensiero di una Juve che, dopo 20 anni, potrebbe trovarsi senza quello che l’Avvocato Agnelli battezzò Pinturicchio, il recordman del calcio italiano che tutti – avversari compresi – ammirano. E sperare che l’attuale presidente Andrea Agnelli, dopo avere annunciato l’addio di Alessandro alla squadra, ci possa ripensare. L’unica certezza nel futuro sportivo di Del Piero è che dopo il 30 giugno, data di scadenza del suo contratto, lui continuerà a giocare. S’intitola Giochiamo ancora anche il suo libro, un diario intimo scritto con il giornalista di Repubblica Maurizio Crosetti, che uscirà in libreria il 24 aprile e che Vanity Fair ha letto in anteprima: «Ho voluto raccontare il mio “io bambino” perché credo che spiegare come un campione si è migliorato – riflettendo sulla sua vita, il suo talento, i suoi errori, le sue paure – possa aiutare chiunque ami lo sport a migliorarsi». Il suo libro inizia con la domanda di un tema delle elementari: «Cosa farò da grande?». E ancora oggi, a 37 anni, continuano a chiederglielo. «Allora non ebbi il coraggio di scrivere: il calciatore. Mi vergognavo del mio sogno, perché non mi sembrava un lavoro vero. Dissi che sarei stato elettricista come mio padre Gino, oppure camionista, o cuoco. Oggi, a quella domanda, posso rispondere che le mie partite non sono finite». Ha imparato a essere orgoglioso del suo sogno. «Sì, perché – come ho scritto nel libro – io non sono quello che pensano di me un allenatore o un presidente, io sono quello che dimostro di essere, sono quello che io stesso penso di me. Per primo saprò quando dovrò smettere, ma non ancora: la mia passione per il gioco è troppo viva». Ha scritto di non aver pianto, come avrebbe voluto, per la morte di suo padre. «Ho il rammarico che non abbia conosciuto i miei figli, il dispiacere di non avergli detto “ti voglio bene” qualche volta di più, e di averlo capito – in certi suoi aspetti – solo dopo, dai racconti dei suoi amici. La sua morte è il dolore più grande della mia vita». Un ricordo legato a lui? «Ho iniziato a battere le punizioni nel soggiorno di casa, con una pallina di spugna posizionata sui disegni del tappeto, cercando di centrare lo spazio tra due gambe di una sedia. E quando ci riuscivo passavo a un punto più difficile. Intanto, però, mio padre cercava di riposarsi disteso sul divano. Fu così che, spostando la sua 127 giallo-crema, mi creò nel garage uno spazio dove potevo giocare con una palla da tennis: il bersaglio diventò l’interruttore». Con sua madre Bruna che rapporto aveva? «In casa era quella che parlava di più, si muoveva di più, sgridava di più. La regina. Ma i suoi sacrifici per crescere me e mio fratello Stefano, mentre con lavori umili arrotondava lo stipendio di papà, sono gesti indimenticabili». È cresciuto in una famiglia «che guardava alle mille lire». «Non eravamo poveri, ma dovevamo fare economia. Il senso della parsimonia mi è rimasto. Non dimenticherò mai quanto mi sono vergognato il giorno che sono tornato a casa con la mia prima auto: una Mercedes SL cabrio. Quella macchina era il premio di quattro anni di lavoro. Arrivo e mia madre mi dice, in dialetto:
“Cossa costea ’sta macchina”. Nessun rimprovero, però era una stortura. Oggi sono uno di quei bambini che può comprarsi tutti i giochi che vuole, ma tanto il suo preferito resta il pallone». Lei si definisce un individualista: perché? «Pretendere il meglio da se stessi ti permette di dare il meglio agli altri. Però so che una squadra è fatta di grandi atleti che, rispettando se stessi, fanno l’interesse generale». Si è mai sentito solo? «Sì, da ragazzo, quando mi sono trovato lontano dalla famiglia. E, come molti sportivi, ho avuto i miei pensieri». Di che tipo? «Se non hai basi solide, lo sport ti può travolgere. Un giorno sei in cima al mondo, con i riflettori puntati, il giorno dopo finisci nel dimenticatoio e la sofferenza ti può stroncare. È come una fortissima escursione termica. Ci sono stati i momenti tristi. Tra il 1998 e il 2000 ho avuto un periodo nero: infortunio al ginocchio, la finale di Champions League persa, l’eliminazione ai Mondiali di Francia, i sospetti di doping alla Juventus». Le pesa, qualche volta, essere Alessandro Del Piero? «No: la notorietà è piacevole, anche se a volte passare inosservati è divertente. Con mia moglie Sonia, da qualche anno, andiamo al Carnevale di Venezia in maschera, così possiamo fare festa senza che ci riconosca nessuno: è un modo per staccare. Un anno fa mi è capitata una cosa curiosa. Durante una trasferta della Nazionale in Giappone avevo conosciuto un lottatore, mio idolo d’infanzia, l’Uomo Tigre. Io gli avevo dato la maglietta, lui aveva ricambiato con la sua maschera. Mi sembrava perfetta per il mio carnevale. E invece ho finito per passare il tempo a fare foto abbracciato ai turisti giapponesi in piazza San Marco». Lei è riservatissimo sulla vita privata. E quando ha sposato Sonia Amoruso, il 12 giugno 2005, il mondo dello sport italiano è rimasto a bocca aperta: nessuno sapeva nulla. «Lo consideriamo un nostro grande successo. Teniamo casa nostra al riparo da tutto il resto. Anche i viaggi li scegliamo in modo da avere discrezione, lontano da tutti». Come vi siete conosciuti? «L’ho vista in un bar. Non credo di essere un gran seduttore, dico solo che è una donna fantastica». Avete tre figli – Tobias, Dorotea e Sasha – e a loro ha dedicato il libro. Che padre è? «Spero di essere all’altezza dei miei genitori. Sono molto preso dai bambini, crescerli è un’avventura affascinante con qualche momento di sana difficoltà, come per tutti. Ma hanno solo 5, 3 anni e 18 mesi: è presto per preoccuparsi del loro futuro». A proposito di futuro, dica la verità: avrebbe preferito finire la carriera alla Juve. «Era quello che sognavo. Questi vent’anni sono stati ricchi di emozioni, con momenti straordinari e a volte duri: ho provato il brivido di scrivere quasi tutti i record bianconeri. Ormai però le cose sono cambiate». Saranno cambiate, ma ultimamente ha fatto grandi gol, il pubblico la osanna. Come definirebbe questa ultima stagione? «La più complicata della mia vita, perché mi ha messo di fronte a una realtà che non avevo mai conosciuto: la realtà di chi gioca poco o niente. Nessuno pensa di meritare l’esclusione, e per quanto io abbia sempre pensato che se gioca un altro vuol dire che se lo merita, questo non significa rinunciare a lottare per conquistare quel posto. Ciò detto, i miei compagni non saranno mai avversari, anche se le maglie da titolare sono 11». Traduco: per uno orgoglioso come lei, è stata dura. «Già molti anni fa mi sono dato delle regole, che a volte – non lo nego – è stato castrante rispettare. Ho lavorato sull’autocontrollo, anche se lontano dalle telecamere, magari in allenamento, mi è capitato di lasciarmi andare ad atteggiamenti di eccessivo agonismo. Ma molto più spesso mi sono morso la lingua, e non ne sono pentito: mi ha aiutato a crescere». Come ci è rimasto quando Andrea Agnelli, già in ottobre, ha annunciato che lei non avrebbe fatto parte della Juventus nel 2013? «Mi ha sorpreso. Ma un capitano non deve mai dimenticare i suoi doveri e quello che rappresenta. La Juventus è impegnata al massimo per vincere campionato e Coppa Italia. Non abbiamo bisogno di polemiche, che del resto non hanno mai fatto parte della mia carriera». Ma davvero sarà il suo ultimo anno in bianconero? «Dal 30 giugno sono senza contratto. Non so immaginare il mio futuro, è un cambiamento enorme e un po’ mi spaventa, perché sarebbe come andare via di casa una seconda volta. Ma lo vivo come i videogiochi che mi piacevano da ragazzino: un nuovo livello da superare». Giovanni Audiffredi