Sara Faillaci, Vanity Fair n. 16 25/4/2012, 25 aprile 2012
Jeans neri délavé, polo grigia sotto una giacca destrutturata dello stesso colore, scarpe da ginnastica, smartphone connesso a Twitter
Jeans neri délavé, polo grigia sotto una giacca destrutturata dello stesso colore, scarpe da ginnastica, smartphone connesso a Twitter. Siamo lontani, fisicamente, dal suo ufficio al «Pirellone»: questo è uno dei suoi pochi momenti di tempo libero. E siamo lontani, metaforicamente, dalla sua età anagrafica: 65 anni che già non dimostra, tantomeno se si presenta così all’appuntamento. Ma per Roberto Formigoni, da 17 anni presidente della Regione Lombardia – dopo l’infanzia a Lecco, l’incontro con don Luigi Giussani e Comunione e Liberazione, la precocissima entrata in politica con la Dc, l’approdo a fine anni Novanta tra le braccia di Berlusconi –, non è un momento facile. Le vicende giudiziarie hanno falciato il suo Consiglio, e una nuova inchiesta sulla Clinica Maugeri di Pavia, costola di quella sul buco del San Raffaele di Milano, ha portato a nuovi mandati di arresto per Pierangelo Daccò (già in carcere) e Antonio Simone, imprenditori di area ciellina vicini al governatore. La coppia, che deve rispondere di associazione a delinquere, appropriazione indebita e riciclaggio, è sospettata di aver accumulato fondi neri per quasi 60 milioni di euro grazie alle false consulenze svolte come mediatori tra le strutture sanitarie e le istituzioni incaricate dei rimborsi. Tra cui, appunto, la Regione Lombardia. Un ottavo dei consiglieri è indagato. Si parla di rimpasto e di dimissioni: c’è chi auspica anche le sue. «Primo, io non sono indagato come non lo è alcun atto della mia giunta: dovrei dimettermi e lasciare la Regione nel caos? Secondo, l’informazione di garanzia è data a tutela dell’indagato, non è una condanna». La bufera sulla Lega, gli avvisi di garanzia al suo collega Nichi Vendola: già tira vento di antipolitica, ma la situazione rischia di precipitare. «I partiti devono stare attenti: è un attimo pensare che, visto che la politica è tutta marcia, se ne può fare a meno. Ma sarebbe la fine della democrazia». Quando si è discusso per regolamentare i finanziamenti pubblici ai partiti, ha proposto di azzerarli. Invece? «Il Pd si è opposto. L’antico riflesso antiberlusconiano li porta a pensare che i finanziamenti privati – per quanto regolamentati, come proponevo io – lascerebbero spazio solo ai ricchi». I vertici della Lega scaricano ogni responsabilità sul tesoriere Belsito: secondo lei è plausibile che non sapessero come gestiva i fondi del partito? «Da un po’ di tempo avvertivo un disagio, ma lo ritenevo legato ai problemi dei congressi e al ricambio generazionale». Sta parlando della malattia di Bossi? «Lo incontravo un paio di volte l’anno, le nostre riunioni non duravano più di 20 minuti, ma si arrivava all’essenziale». Prima dello scandalo, ricambio generazionale significava Renzo Bossi. «È stato eletto: ha preso 12 mila voti». Qualcuno sospetta che lo abbiano aiutato i dossier con cui l’ex assessore allo Sport e ai Giovani della sua giunta, Monica Rizzi, danneggiava i candidati rivali. «La Rizzi ha presentato lunedì (16 aprile, ndr) le sue dimissioni su richiesta della Lega». Non la imbarazzava un po’ l’idea di avere in consiglio un ventenne senza studi né esperienza? «I giovani in qualche modo devono iniziare. Certo, il consiglio che io do sempre è quello di laurearsi e costruirsi una professione per non essere ricattabili». Lascia perplessi, come ha notato Gian Antonio Stella sul Corriere della Sera, che un principiante intaschi uno stipendio triplo di quello del governatore di un grande Stato americano. «Hanno parlato di 12 mila euro al mese: sono 9 mila». Comunque troppi: nel clima in cui viviamo, non sarebbe opportuno ridurre lo stipendio dei consiglieri? «In Lombardia lo abbiamo già fatto due volte, di un 10% per cento l’una. E siamo la Regione col minor numero di consiglieri per abitanti: 80 per dieci milioni di persone. Piuttosto bisognerebbe premiare le Regioni che amministrano bene – abbiamo chiuso in pari nonostante i tagli di Roma, e in un Paese dove gli imprenditori si suicidano perché lo Stato paga i fornitori a tre anni, paghiamo a 60 giorni – e punire quelle in deficit». Lei parla di merito, ma se Renzo Bossi si è dimesso, del Consiglio regionale continua a far parte Nicole Minetti, indagata per induzione e favoreggiamento della prostituzione minorile. Si è scoperto in questi giorni che, a processo dell’ex premier già iniziato, dove lei è teste, Berlusconi le ha «regalato» 400 mila euro abbondanti: è merito questo? «Quando vidi il nome nel listino bloccato e poi le foto a Colorado, chiesi informazioni a don Verzé, dato che lavorava come igienista al San Raffaele. Mi disse: è una ragazza acqua e sapone, con la Tv si mantiene. Col senno di poi...». Se avesse saputo, si sarebbe opposto alla sua candidatura? «Ovviamente». Non pensa che anche la Minetti, come Renzo Bossi, dovrebbe fare un passo indietro? «Le dimissioni sono personali, certo un bel gesto aiuterebbe». A proposito del San Raffaele. In una lettera a don Verzé, diventata pubblica con l’inchiesta sul buco da oltre un miliardo, lei elencava la lunga lista di favori che la Regione aveva fatto al suo ospedale. «Non sono favori. Ci sono strutture che hanno diritto a rimborsi maggiori perché hanno il pronto soccorso o il polo didattico: il San Raffaele è una di quelle. Come presidente della Regione, se un ospedale così viene a pormi un problema è chiaro che cerco una soluzione, perché a me interessa che in Lombardia ci siano centri di eccellenza. Ma come parlavo con don Verzé, parlavo con i Rocca dell’Humanitas, con i Rotelli e con gli altri. E le soluzioni sono sempre state trovate nel rispetto delle leggi». Dipende dai punti di vista: Daccò e Simone, amici con cui condivide l’esperienza ciellina, sono sospettati di avere intascato 60 milioni di fondi neri come ricompensa per averla «incoraggiata» a trovare quelle soluzioni. Se venisse dimostrato che si sono approfittati del rapporto per arricchirsi? «San Raffaele e Maugeri sono aziende private che, come tutte le persone coinvolte, nulla hanno a che fare con la Regione. Non un euro è stato sottratto alle casse pubbliche. La sensazione è che sia in atto un regolamento di conti tra privati che cercano di coprirsi dietro il mio nome in modo del tutto ingiustificato. Mi difenderò in ogni sede». E come spiega gli estratti conto della carta di credito di Daccò – a quanto pare in mano agli inquirenti – da cui risulterebbero pagamenti di viaggi per lei, suo fratello e persone a voi vicine? «Non ho mai ricevuto alcuna regalia da nessuno. Verificherò se il viaggio l’ho effettivamente fatto. Comunque, quando si organizza una vacanza di gruppo, c’è chi si fa carico del viaggio, chi dell’albergo, chi delle escursioni, e a fine vacanza si pareggiano le spese. Hanno lanciato un attacco politico contro di me, ma io non ho nulla da rimproverarmi». Come nasce la sua adesione a Cl? «Dall’incontro con don Giussani: ero un ragazzino quando ci insegnò il cristianesimo nella sua verità. Crescendo, ci siamo avvicinati chi al mondo del lavoro, chi alla cultura, chi alla politica. Ma lì scatta la responsabilità individuale: Cl non mi ha mai dato ordini né divieti». A 24 anni entra nei Memores Domini, un’associazione laica, nata in seno a Cl, i cui membri scelgono di vivere i consigli evangelici di povertà, castità e obbedienza. Anche lei ha fatto questi voti? «Certo». Difficili da mantenere. «La vita è difficile: anche sposarsi, crescere figli, non è una passeggiata. A ognuno il Padreterno ha dato un compito, sono gli incontri che ti fa fare a farti vedere la tua strada. Quella era la mia». Pentito? «Mai». Momenti di crisi? «Quelli, certo. I peccati li commettiamo tutti, e io sono un grande peccatore». Nel senso che non sempre è riuscito a rispettare i suoi voti? «Di questo parlo con il mio confessore. Ma noi cristiani lo sappiamo: c’è un uomo che ci salva. Gli diciamo: “Padre, siamo stati deboli, abbiamo commesso ancora quei peccati”. Perché i peccati sono sempre gli stessi. Allora lui perdona e noi ci rialziamo. Sbaglieremo fino all’ultimo momento della vita, ma per fortuna esiste la misericordia di Dio». Una scelta come la sua comporta quella di non avere figli. Rimpianti? «Rimpianti direi di no, però certamente è una scelta importante». Non ha mai incontrato una donna capace di farle pensare: la sposo, cambio vita? «Più di una». E il voto di castità? «L’impegno a osservare il voto c’è. Dopodiché, siamo nel mondo. E poi, il rapporto con una donna non è fatto solo di sesso. Quindi non è necessariamente in contraddizione con l’impegno che abbiamo preso davanti al Padre». Invece una vita da uomo pubblico e di potere come si concilia col voto di povertà? «È nella natura del Memores essere nel mondo, lavorare e guadagnare. Formigoni cerca di essere povero nel senso di essenziale, ma senza dimenticare il suo status. Se andassi in giro vestito di stracci, non darei decoro al mio ruolo». Eppure si dice che lei ami fare vacanze su barche di lusso. Quella di Daccò, ma anche altre noleggiate per lei, pare, da Massimo Ponzoni, consigliere del suo partito all’ufficio di presidenza, arrestato per bancarotta fraudolenta. «Adoro il mare ma non ho mai avuto vacanze pagate da nessuno. Una barca l’ho avuta, con alcuni amici: l’Obelix. Qualche anno fa l’abbiamo venduta: la comprammo per 200 mila euro, 40 mila a testa, e si urlò allo scandalo». Non negherà che, nell’abbigliamento, qualche eccesso se lo concede. Per esempio, le camicie sgargianti. «In quello esce fuori la mia vera natura: sono sempre stato un creativo, e fin da ragazzo mi piaceva uscire dagli schemi. Le prime camicie colorate le ho comprate nel 1970 a Londra, ma prima di metterle in pubblico mi sono dovuto far conoscere; se le avessi indossate nel ’95, quando mi hanno eletto in Regione, i lombardi avrebbero detto: “Chel le l’è mat”. Dopo 17 anni sanno chi sono e mi apprezzano, così posso concedermi sfizi. Ogni tanto mi piace prendermi meno sul serio. Milano è la capitale della moda, gli stilisti mi regalano vestiti e io li indosso per rendere omaggio a loro e all’Italia. E mi fa godere l’idea che gli avversari politici si incazzino». Si incazzano perché veste sgargiante? «Guardi i commenti in Rete. Forse dà fastidio che Formigoni certe cose se le possa permettere». In effetti è un figurino. «Ci tengo al mio aspetto: per mantenermi così, faccio una vita sana. Corro due volte a settimana. E quando mi sono accorto che non mi piacevo più, ho fatto una dieta, da solo: via 17 chili». Peccati di gola? «Cioccolato. Bisogna pur gratificarsi in qualche modo». Invecchiare la spaventa? «Per il momento, no. Sono sempre stato un tipo attivo e continuerò a esserlo, anche politicamente». Non ha figli, non teme di rimanere solo? «No, perché grazie a Cl ho tanti amici, di tutte le età, che non mi abbandoneranno mai. Siamo disposti a fare qualunque cosa l’uno per l’altro». Mai stato tradito da uno di loro? «Un paio di volte, e ci rimasi male». Ha sofferto per una donna? «Mai». Ha fatto soffrire una donna? «Ahimè, è successo». Si considera vendicativo? O perdona? «Se uno ti dà un pugno, dice il Vangelo, porgi l’altra guancia. Ma, come dico io, di guance ne abbiamo due, al terzo pugno hai diritto di reagire. Per esempio vorrei replicare a chi, dalle pagine di questo giornale, mi ha accusato di non aver invitato il figlio di Giorgio Ambrosoli alla proiezione del film sulla vita di suo padre, organizzata per la giornata che la Regione ha istituito in commemorazione delle vittime di mafia. È circolata la favoletta che io non l’abbia invitato perché in un’intervista aveva criticato la mia giunta. Falso. Tra l’altro è stata la presidenza del Consiglio regionale, non della giunta – cioè non io –, a organizzare l’evento. E la figlia è stata invitata». Resta il fatto che la polemica è nata perché un leghista in Consiglio ha detto: «Proprio lui che ci ha criticati volete invitare?». Forse potrebbe chiedere scusa a nome della Regione. «Chiederà scusa lui se ha detto quella frase. Quel giorno non ero in Consiglio». Sempre stato così sicuro di sé? «Veramente da bambino ero timidissimo, a mia madre spiaceva che parlassi così poco. Ero il primogenito: papà e mamma, lui ingegnere dell’Enel, lei insegnante, faticavano a capire le mie scelte: quella di studiare filosofia, ma anche quelle religiose. Quando però hanno visto che ero felice, le hanno accettate». Avrebbero voluto dei nipoti? «Ci hanno pensato i miei fratelli: mia sorella ha sei figli e ne ha adottati altri due, mio fratello tre figlie». Che zio è Formigoni? «Presente a Natale e a Pasqua. Per il resto, mando sms». A vederla oggi, non si direbbe che sia stato un timido. «Crescendo, ho capito che gli altri non dovevano farmi paura». A scuola era bravo? «Sono sempre stato il primo della classe, tranne al liceo classico, dove ero compagno di classe di Castelli». Era lui il primo della classe? «No, aveva sei in tutte le materie. Io avevo 8, ma Emilio Dolcini da Stradella arrivava a 8,1. Anni fa, dopo che l’avevo nominato in un’intervista, mi scrive uno che dice di essere lui, lo invito in Regione, ma quando si presenta mi accorgo che è un altro. Gli ho detto: “Ma che cazzo mi racconti, non sei tu”. Del vero Dolcini non ho mai saputo nulla». Sbaglio o non eravate tanto amici? «Non sbaglia. Visto che ero molto competitivo, decisi di puntare sullo sport, dove Dolcini era un disastro. Facevo scherma, basket, con Castelli andai a Gorizia a seguire un corso dell’aeronautica. A 14 anni pilotai un piper». Chissà che successo con le ragazze. «Piacevo. E il successo è continuato». Ha sempre accanto donne molto belle. «Io amo la bellezza, e la bellezza della donna è la più squisita del creato. Un dono del cielo». Sara Faillaci