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 2012  aprile 25 Mercoledì calendario

Rosa Angela Mauro, nata alle 14 del 21 luglio 1962 a San Pietro Vernotico, provincia di Brindisi, e vissuta fino a 14 anni nella vicina Squinzano, provincia di Lecce, non ha mai parlato della sua infanzia

Rosa Angela Mauro, nata alle 14 del 21 luglio 1962 a San Pietro Vernotico, provincia di Brindisi, e vissuta fino a 14 anni nella vicina Squinzano, provincia di Lecce, non ha mai parlato della sua infanzia. O meglio: Rosa Angela Mauro – figlia di Giuseppe, contadino nell’azienda vinicola Mazzotta di Squinzano, e di Maria Raffaela Pascuzzi, operaia alla locale Manifattura Tabacchi e poi casalinga – non ha mai parlato di tutto quello che le è successo prima di diventare Rosy e legarsi anima e corpo alla Lega Nord e al suo capo. Come se, pubblicamente, abbia voluto esistere dai 30 anni in poi. Nulla ha più detto del marito Alberto Ferrari, nulla dei genitori, non una parola dei due fratelli nati dal primo matrimonio del padre: Salvatore, 67 anni, e Mario, 62, emigrati a Buccinasco, provincia di Milano, nel 1968, quando lei aveva 6 anni. UNA FAMIGLIA CHIUSA Arrivo a Squinzano un pomeriggio freddo e ventoso: campagna dolce, case a due piani con un terrazzo come tetto, vigneti di Negroamaro e Malvasia che si alternano a ulivi e ortaggi. Squinzano ha poco meno di 15 mila abitanti, un’economia agricola, 7 chiese, 5 cappelle, un convento, 7 confraternite, qualche palazzo nobiliare e un campo sportivo dove si allena il Lecce. La famiglia di Rosa ha vissuto in via Gennaro Abbate fino al 1974, e al 38 di via Regina Elena fino all’agosto del ’76, quando partirono tutti per Milano. Dal portone in fondo a via Regina Elena, Rosa usciva per andare alla scuola elementare Don Bosco, alle medie Gennaro Abbate e in piazza Vittoria, che qui chiamano Villa Comunale e che è sempre stata il ritrovo dei giovani. I due anziani vicini di casa si ricordano bene di lei, e appena facciamo il suo nome il marito si fa due volte il segno della croce: «Mamma mia, quella era ’na strana, mi tirava sempre i gomitoli in testa. I genitori la chiudevano a chiave quando uscivano per andare al lavoro, ma lei dal giardino saliva in terrazza, scavalcava il muretto, andava sul tetto dei vicini e scendeva in strada scivolando giù dal palo della luce che era grosso, eh, e di cemento. ’Na diavola, era». Come fa una ragazzina di 12-13 anni a essere «una diavola»? In paese molti si ricordano di Rosetta – la chiamavano così – ma quando faccio il suo nome per cercare di capirne di più, cavo fuori solo sorrisetti imbarazzati e commenti carichi di pregiudizio: «Già da bambina era scontrosa, sentiva il peso di una famiglia molto chiusa, molto isolata»; «A scuola andava poco e male»; «Era vivace, precoce. Con la scusa di andare a messa, usciva per frequentare i ragazzi più grandi di lei. Anche più di uno nello stesso periodo». BRUNO, IL MALEDETTO Difficile non pensare di scappare da una situazione come questa. E infatti incontro un uomo che mi racconta del tentativo di fuga di Rosa. Come tutti, anche questo testimone chiede di mantenere l’anonimato: «Un giorno prendo il treno per andare all’università a Bari. Il treno è affollatissimo, trovo posto in uno scompartimento e vedo lei. Io avevo da poco compiuto 20 anni, lei 8 di meno. Era diventata una bella ragazza, alta, appariscente, prosperosa. Non passava certo inosservata, ed era molto sveglia per la sua età. Mi siedo e le chiedo: “Che ci fai qui tutta sola?”. Lei mi risponde: “Vado a Roma e poi a Varese, a trovare la sorella di una mia amica”. La guardo: “Ma vai senza valigia?”. Lei mi fa: “Sì, perché sto scappando di casa. Mio padre ha saputo che esco con Bruno Pedata”. Bruno Pedata era il bello e maledetto del paese, tutte le donne gli morivano dietro perché era alto, biondo, portava sempre un giubbotto di pelle e girava in moto. Ma era molto più grande di Rosa, 10 anni e passa di differenza, e soprattutto si diceva che avesse portato la droga a Squinzano. Le dico: “A Roma capirebbero subito che sei sola, e poi a Varese che cosa fai? Ti sei ficcata in una situazione pericolosa. Scendi con me a Bari, magari trovi un posto dove stare”. La convinco e andiamo a cercare una camera, ma le camere costano, e lei come paga? Per fortuna il padrone dell’appartamento dove siamo capitati è un poliziotto: la accompagna in caserma, lì lei racconta che cosa le è successo, parla della severità del padre, loro chiamano i genitori che la vengono a prendere. Dopo venti giorni la incontro a Squinzano: “Mi hanno mandato in un istituto a Brindisi, ma lì non mi piaceva, sono scappata. Meglio a casa che in quel posto”. Era fatta così, agiva d’istinto. Un anno dopo si trasferirono tutti a Milano. Dissero che il padre volesse evitare le chiacchiere, ma chissà qual era la vera ragione, magari il lavoro. So solo che non è mai più tornata. Ha sposato la Lega, un partito che non ama noi meridionali. Qui sono in tanti a non perdonarglielo». NON TE LA TIRARE Uno dei «tanti» è Giuseppe Palaia, medico sportivo del Lecce, che racconta di avere incontrato Rosy Mauro due anni fa, a Forlì. «Noi eravamo in ritiro, lei partecipava a una riunione di partito. Quando l’ho saputo, l’ho cercata. L’avevo ancora negli occhi quando, ragazzina, andava a prendere l’acqua alla fontana. Finalmente l’ho trovata, le ho detto: “Signora, lei è di Squinzano come me, siamo compaesani”. Pensavo di farle una cosa gradita. Invece mi ha guardato male: “Mio padre era di Squinzano, non io”. “Chianu cu nu scrufuli”, le ho risposto, che vuol dire “Attenta a non scivolare”. Non te la tirare, insomma. Lei ha fatto finta di non capire e se n’è andata. L’ho trovata molto strana, e scortese». Che Rosy Mauro non desideri riallacciare i rapporti con la sua infanzia e il suo paese d’origine lo dimostra il silenzio con cui è stato accolto l’invito del sindaco di Squinzano, Giovanni Marra. “Non sono mai stato in sintonia con la Lega, però sono del Pdl, e comunque mi sembrava interessante invitarla ai nostri convegni, in fin dei conti è sempre la vice presidente del Senato. Le ho scritto, telefonato, ma non ci ha nemmeno risposto. Non si rinnegano le proprie origini così. Mi chiedo: perché?». SOLO UN GIOCATTOLO Ada Marzo è una compagna delle elementari di Rosetta. «Abitavamo vicino, spesso giocavamo anche insieme. La scuola non le piaceva: ricordo che in quarta prese cinque in storia, geografia e scienze. Alla fine uscì con la media del sette. Con i ragazzi era ingenua, e loro un po’ ne approfittavano. Anche Bruno Pedata: era proprio cotta, ma a lui non importava nulla di lei, Rosetta era il suo giocattolo e lei non se ne accorgeva. Lui poi è finito male, sono anni che non lo si vede, credo viva all’estero. Io e Rosetta abbiamo studiato insieme anche alle medie, poi lei è partita per Milano. È tornata in vacanza due estati, dopo non l’ho più vista né sentita». Dall’armadio della ex compagna sbuca, avvolta in un vecchio quotidiano, una cornice con dentro una foto di bambine col grembiule bianco, il fiocco e accanto la maestra. È una foto di quinta elementare. Rosa Angela Mauro è a destra, in seconda fila, i tanti e lunghi capelli neri pettinati con la riga di lato, non alta, gli occhiali da vista con le lenti spesse. Sorride. È la primavera del 1973, e lei ha quasi 11 anni. Presto il suo corpo comincerà a cambiare, e i ragazzi a guardarla, e i genitori a preoccuparsi per lei. Fino a quando, a 14 anni, Rosetta lascerà il paese, ingiustamente marchiata come «la Trista». ADDIO ROSETTA, BENVENUTA ROSY A Milano comincerà un’altra storia, un’altra vita. Rosetta diventerà Rosy, sindacalista Uil. Conoscerà e sposerà Alberto Ferrari, insieme affronteranno l’avventura della Lega, poi si separeranno, lui si eclisserà nell’ombra, lei diventerà la fedelissima di Bossi. E scoprirà, molti anni dopo, che i pregiudizi cambiano. Ma non muoiono. (ha collaborato Annachiara Pennetta della Gazzetta del Mezzogiorno) Mariangela Mianiti