MASSIMILIANO NEROZZI, La Stampa 18/4/2012, 18 aprile 2012
Nero su bianco - E non vissero felici e contenti. Manca l’happy end alla favola perfetta di Alessandro Del Piero, quella vissuta in 19 stagioni juventine e quella che racconterà su carta, in libreria dal 24 aprile
Nero su bianco - E non vissero felici e contenti. Manca l’happy end alla favola perfetta di Alessandro Del Piero, quella vissuta in 19 stagioni juventine e quella che racconterà su carta, in libreria dal 24 aprile. Le ultime bozze che aveva in testa, erano ben altre: lui e la Juve, insieme fino all’ultima partita su un campo di calcio: «Era quello che sognavo - ammette Del Piero nell’intervista a «Vanity Fair» in uscita oggi perché questi vent’anni sono stati ricchi di emozioni, con momenti straordinari e a volte duri: ho provato il brivido di scrivere quasi tutti i record bianconeri. Ormai però le cose sono cambiate». Ognuno per la sua strada, come annunciato dal presidente Andrea Agnelli, già a ottobre. Separazione poco consensuale, visto il commento del capitano: «Mi ha sorpreso». Quello che voleva essere un tributo, davanti all’organo più rappresentativo del club, fu interpretato quasi fosse uno sgarbo. Diciamo che un’anticipazione era già uscita l’estate scorsa, se alla firma del contratto, tra i sorrisoni per i fotografi, il numero uno bianconero chiarì che di ultimo anno con la Juve si trattava. Sentirlo ribadire dal presidente davanti all’assemblea dei soci, e quindi in tv, dev’essere stato comunque un brutto contropiede. Da lì in poi, non è più stata la stessa favola, la stessa stagione. Anzi: «La più complicata della mia vita - continua Del Piero - perché mi ha messo di fronte a una realtà che non avevo mai conosciuto: la realtà di chi gioca poco o niente. Nessuno pensa di meritare l’esclusione, e per quanto io abbia sempre pensato che se gioca un altro vuol dire che se lo merita, questo non significa rinunciare a lottare per conquistare quel posto». Per uno abituato a risalire tanti burroni, dagli infortuni alle esclusioni, tornando in vetta, Del Piero s’è trovato davanti un fossato invalicabile. Finisce qui. Come porre un limite a chi si sente infinito. Continuando per sentieri fiabeschi, l’eroe s’è ritrovato umano: non sarebbero bastati gol e dribbling, punizioni e vittorie, l’armamentario di una vita insomma, per cambiare il futuro. «Ma un capitano non deve mai dimenticare i suoi doveri racconta ancora il numero dieci - e quello che rappresenta. La Juventus è impegnata al massimo per vincere campionato e Coppa Italia. Non abbiamo bisogno di polemiche, che del resto non hanno mai fatto parte della mia carriera». Dovrà tracciare la rotta a un destino che dal 1993 aveva il pilota automatico, verso l’orizzonte juventino: «Dal 30 giugno sono senza contratto. Non so immaginare il mio futuro, è un cambiamento enorme e un po’ mi spaventa. Perché sarebbe come andare via di casa una seconda volta». Sfrattato, insomma, seguendo il ramo immobiliare. «Ma lo vivo come i videogiochi che mi piacevano da ragazzino: un nuovo livello da superare». Di certo non cambierà game, come ha voluto chiarire fin dal titolo dell’autobiografia: «Giochiamo ancora». Dove non si sa, e forse neppure lui. Come da piccolo. «Quando mi chiedevano: “Cosa farai da grande?”» Quesito buono anche oggi: «Allora - continua Del Piero - non ebbi il coraggio di scrivere: il calciatore. Mi vergognavo del mio sogno, perché non mi sembrava un lavoro vero. Dissi che sarei stato elettricista come mio padre Gino, oppure camionista, o cuoco. Oggi, a quella domanda, posso rispondere che le mie partite non sono finite». Anche senza il bianconero addosso, che pure pareva un’epidermide più di una tuta da lavoro. «A volte il vincitore è semplicemente un sognatore che non ha mai mollato», direbbe John Milton. «Io non sono quello che pensano di me un allenatore o un presidente - afferma Del Piero - io sono quello che dimostro di essere, sono quello che io stesso penso di me. Per primo saprò quando dovrò smettere. Ma non ancora: la mia passione per il gioco è troppo viva». Come quando giocava con papà: «Ho il rammarico che non abbia conosciuto i miei figli, il dispiacere di non avergli detto “ti voglio bene” qualche volta di più . La sua morte è il dolore più grande della mia vita». L’epilogo non è scritto. E forse possono attendere anche gli States, Los Angeles, New York, amate dimore, ma da ex giocatori. In Europa dunque. Magari al Psg che un mese fa lo cercò. «Città bellissima e interessante», confidò agli amici. Ancelotti, la Champions. Invece del finale, gli piacerebbe un nuovo inizio. C’era una volta a Parigi...