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 2012  aprile 14 Sabato calendario

MATER SCHOLAROSA

Vieni qui, siediti bene, non sbriciolare, facciamo i compiti. Scrivere dieci paroline con “eu”. Ma come non le sai? E’ facile: Europa, eureka, pneumatico, feudale, freudiano, neuroni, ad esempio. Non capisco perché piangi, adesso. Su, scrivi: eu-fe-mi-smo. La sera dei dittonghi, in prima elementare, pensai che avevo sbagliato tutto. Mandarla a scuola un anno prima (non per ambizione ma per lasciarla con le amiche a cui sognava un giorno di mostrare un vero chihuahua bianco che avrebbe chiamato Fragolina) era stata una pessima idea: avevo sottratto a mia figlia un anno di vita leggera, al parco o a testa in giù sul divano, un anno di pomeriggi senza i compiti a casa, ma soprattutto, cosa perfino più grave, l’avevo sottratto a me. Se il contadino ha quindici mele e gliene cadono sette, quante mele gli restano? Nascondo le mani dietro la schiena per non far vedere che conto con le dita, a lei inspiegabilmente piace la matematica e potrei riuscire a convincerla che è merito mio, della mia precisione, ma poi comincia a sbuffare, a cancellare, a fare le orecchie nelle pagine, a sbadigliare, a scrivere numeri inventati e a far cadere la matita per terra. Mi innervosisco, dovrei pure lavorare, mi mette il muso, che cos’è un abaco? La parte peggiore di tutta la giornata. Non odiavo i compiti per casa da bambina, ma ricordo le facce di mia madre quando le annunciavo che c’era la ricerca sul Friuli Venezia Giulia. Doveva procurarmi il materiale, farmelo copiare, fingere di conoscere il numero esatto di abitanti del Friuli e la sua superficie in chilometri quadrati, poi aiutarmi a studiare il clima e l’economia, parole come: pastorizia. Anche oggi ho problemi a collocare geograficamente Pordenone. Non odiavo i compiti da bambina, ma credo di odiare quelli di mia figlia. E’ troppo piccola per farli da sola, e poi ho letto ovunque che le devo trasmettere il senso dell’importanza della scuola sgobbando insieme a lei. Deve capire subito che la vita è responsabilità e scrivanie, doppi turni di lavoro, artrite cervicale e occhiali da vista. Il suo mondo è cambiato (non chiede più: “Babbo, tu che lavoro fai? Le bolle di sapone?”, e per la prima volta pronuncia frasi inaudite: hai visto il mio libro d’inglese?), ma drammaticamente, con i compiti a casa, è cambiato moltissimo anche il nostro piccolo mondo adulto. Quando accompagno mia figlia a scuola, alle otto e tredici del mattino (perché alle otto e quindici la porta si chiude e bisogna passare dalla direzione), a volte incrocio la giovane e gentile maestra, che arriva da lontano, sempre un po’ trafelata, il venerdì con un enorme trolley, e ci guardiamo negli occhi, salutandoci cordialmente. Credo di sentire l’intensità del suo pensiero, in quei momenti: credi forse di delegarmi la formazione di tua figlia e andartene in giro libera per la città, mentre io, con uno stipendio da fame, le faccio preparare anche il lavoretto con le mollette da bucato a forma di coniglio, che tu fingerai di adorare per trenta secondi e poi chiuderai in fondo a un cassetto? No, cara, ricordati di aprire il diario, quando la tua piccola innocente tornerà a casa, perché lo riempirò per bene di esercizi, e comunque ti trovo impreparata sulle decine e sulle unità. Vorrei gridarle: le assicuro che anch’io lavoro, maestra Susy, non vado in giro per la città, e sì, le decine sono sempre state il mio punto debole, ma ho appeso al muro in cucina anche l’ultima civetta portachiavi; ma mi trattengo perché non vorrei mettere in imbarazzo la bambina, già terrorizzata dalla possibilità di prendere “una freccia” (adesivi a forma di freccia segnalano gli errori, a forma di stella i successi, e chi ha più stelle vince il riconoscimento di più bravo della giornata).
Vorrei poter dire che capisco la ribellione ai compiti a casa dei genitori francesi perché, appunto, come me lavorano, ed è difficile trovare il tempo per seguire i figli in grammatica, e non si può certo delegare a tate che parlano altre lingue, ma non si possono nemmeno fare i compiti alle nove di sera, e poi i bambini in Francia stanno quasi sempre a scuola fino alle quattro e mezza (il mercoledì invece si resta a casa, e immagino la faccia di un qualunque datore di lavoro, qui: il mercoledì non vengo, sa, porto i bambini a pallacanestro e a violino; mentre in Francia si organizzano con un’idea superiore e disinvolta di civiltà, in cui prende corpo il senso di quel verso di Jovanotti: “L’autista di scuolabus ha in mano la nazione / più di un ministro di un Papa o di un’autorità”), perché mai dovrebbero, dopo otto ore di aula, mettersi di nuovo seduti a un tavolo, come e più di un impiegato di banca? Ma la verità è che li capisco, i genitori francesi, soprattutto per un motivo che non ha niente a che vedere con le teorie pedagogiche o con la preoccupazione per lo stress infantile: non ho nessuna voglia di fare i compiti. Mi piace ascoltare mia figlia quando mi spiega il pensierino che vuole scrivere, questo sì (“Oggi è il giorno più bello della mia vita perché un uccellino è entrato in casa e la nonna l’ha salvato dal gatto”), e mi piace infilare degli elementi di ribellione (Ecco una bella frase con le doppie, ascolta, te l’ha detto: Venti pensierini sono davvero troppi per una ragazzina di nemmeno sei anni). Adoro quando scrive: “La mia mamma è bellissima e prepara molte torte”, perché dimostra amore per la ricostruzione fantasiosa e ingiustificata della realtà, magari un giorno scriverà un romanzo fintamente autobiografico in cui io avrò il ruolo della madre musa, di quelle ricordate per i consigli da oracolo (“Mi diceva sempre mia madre, prima di darmi il bacio della buonanotte: solo chi ama l’illusione e la conosce andrà lontano”, e io farò finalmente un figurone). Ma vorrei che la prima elementare fosse ancora un tempo libero e selvaggio, non una preparazione ai contratti a tempo determinato. Avrei voluto che i pomeriggi, dopo tutte quelle ore in classe a imparare il mondo nuovo, avesse il tempo di annoiarsi, e nella mia vita ideale io avrei detto, come il padre di Natalia Ginzburg in “Lessico Famigliare”, “voialtri vi annoiate perché non avete vita interiore”, poi mio marito mi avrebbe tirato una pallonata. Mi sembra che se leggiamo insieme al supermercato i nomi e i prezzi dei biscotti, il sabato, è già una bella cosa, e i titoli dei film sui cartelloni del cinema, le favole la sera, se facciamo delle cose insieme (preparare le polpette contandole, guardare un cartone facendomi spiegare per bene i personaggi, imparare una canzone), non crescerà sgrammaticata, ma quasi tutti i guru dei compiti dicono che gli esercizi a casa educano alla responsabilità. “Sei un’irresponsabile”, mi ha detto infatti mio marito un sabato sera, tornato dal lavoro. Subito dopo ha schivato la Garzantina “Fiori e Giardini” (non ho né giardino né fiori, ma sapevo che prima o poi mi sarebbe servita) che gli ho lanciato addosso. Ero un’irresponsabile perché non avevo fatto con la bambina la metà dei compiti del fine settimana. Eravamo uscite, con il suo fratellino, preso l’autobus, andati al parco, poi in un negozio di giocattoli dove l’avevano truccata da farfalla, comprato un regalo di compleanno per una sua amichetta, ripreso l’autobus al volo, tornati a casa, lavati, cucinati e divertiti. Avevamo preparato anche il solito scherzo, tutti dietro il divano a far finta di non esserci. Ma ero un’irresponsabile perché non ero rimasta in casa a fare le addizioni, o gli insiemi di arance. “Tu non pensi MAI ai compiti di tua figlia, adesso dovrò occuparmene io, come al solito”. Ha schivato anche, abbassando la testa, la Garzantina gialla di filosofia che usavo al liceo, e mi sarebbe dispiaciuto se si fosse rotta. Tutte le mie idee di leggerezza e di apprendimento calato nella realtà erano evidentemente sbagliate se venivo accusata di essere un’irresponsabile di sabato sera, con la cena sul fuoco e i bambini contenti. Era cominciata, davanti a una ragazzina truccata da farfalla e un bimbo che mostrava fiero il suo nuovo serpente di gomma appiccicosa, la terribile guerra psicologica dei compiti a casa. Da quel momento, abbiamo sfidato l’inverno a colpi di pensierini. Quando li controllava lui, riusciva sempre a infilarci cose come: “Il mio babbo è un campione di nuoto nello stile a delfino”, oppure: “Oggi il mio babbo ha spalato tutta la neve della strada da solo e ha fatto il pupazzo più alto del mondo”, quando li controllavo io offrivo suggerimenti su: “La mia mamma ha salvato un bambino che stava per essere investito da un’auto”, e anche: “La mia mamma è velocissima a fare i calcoli a mente, nessuno può batterla” (con spirito competitivo, anche la baby sitter si è offerta di aiutarla e quando sono andata a spiare il quaderno ho letto: “Mi piace molto ascoltare le belle storie della mia tata preferita dell’universo che si chiama Elena”). Nel frattempo, facevo sondaggi fra le altre mamme sulle modalità e le quantità dei compiti a casa, soprattutto dei bambini più grandi. Vedevo avvicinarsi il momento in cui avrei rimpianto l’abaco con le decine, travolta da cartine fisiche e politiche e proprietà commutativa. Ma adesso è tutto molto più complicato. Ricostruzioni in gesso in rilievo di uno dei paesi d’Europa a scelta, con le zone verdi dipinte di verde, i rilievi montuosi di marrone spruzzato di bianco, i fiumi e i laghi azzurri a tempera. Per le ore di educazione fisica, coreografie di hip hop da preparare a casa con lo stereo e preferibilmente un genitore vestito da maestra di “Saranno Famosi” che filma, tiene il tempo e incita a non mollare. Simulazioni di verifiche di matematica. Questa l’ho letta nel libro di Ayelet Waldman, moglie di Michael Chabon e madre di quattro figli, “Sono una cattiva mamma”: “Sessanta operazioni da risolvere in quattro minuti. E noi genitori dobbiamo metterci a cronometrare. I miei bambini sono molto diversi tra loro, eppure sono scoppiati a piangere tutti e due per paura di non riuscirci. Vi ricordo che hanno solo sette anni”. In fondo anche le poesie a memoria erano una fatica, ma se adesso mi ricordo tutto il “Cinque Maggio” e mai la lista della spesa è merito della maestra delle elementari che aveva una cotta per Napoleone. Però questo fine settimana mia figlia dovrà scrivere trenta pensierini con “c’è”, “c’era”, “c’erano”, e so che mia nonna, maestra elementare in pluriclassi di paese (dalla prima alla quinta) con cinquantasei bambini, non l’avrebbe mai permesso, perché a casa c’era un mucchio di altra roba da fare (e la volta in cui si ammalò, e non c’era nessuno che potesse sostituirla, mandò mio nonno, rappresentante di mangimi, a fare supplenza). Secondo gli americani, comunque, il carico di lavoro non è cambiato molto negli ultimi cinquant’anni, ma i maestri dei bambini del ceto medio e medio-alto aumentano i compiti perché le famiglie fanno pressione, aspirando a risultati brillanti nei test nazionali e negli esami di ammissione a scuole prestigiose. Non so che lavoro facciano i genitori dei compagni di mia figlia (a parte una mamma che aveva il bar accanto alla scuola in cui andavo a bere il caffè la mattina, così potevamo lamentarci dei compiti, ma l’ha venduto ai cinesi da un giorno all’altro), però si dice che il più bravo della classe, che prende sempre tutte stelle, sia Rocky: seienne cinese, fino al venerdì fa i compiti in italiano e ha insegnato a tutte le femmine molte mosse di karate, e il fine settimana va a scuola di cinese, oltre a esaurire quella montagna di esercizi del weekend, dati come se non ci fosse un oggi fatto di amici, parenti, nintendo, compere, gite, liti, capriole, ma soltanto una lunga notte prima degli esami. Bisogna quindi scegliere accuratamente anche i genitori con cui organizzare le ribellioni ai compiti. Con le mamme cinesi, meglio di no: la possibilità di un Trota non è prevista nei loro pomeriggi, e l’accudimento ossessivo, che per noi consiste nella giustificazione morbida, nel giubilo di fronte a qualunque brutto disegno, e nell’iscrizione ai corsi di capoeira, per loro si manifesta nel duro allenamento a una veloce conquista del mondo.
La guerra dei compiti è continuata, fra bombe intelligenti e lanci di enciclopedie (“Io vado verso la vita”, “No, tu vai verso la disalfabetizzazione dei nostri figli”, “I tuoi schemi mentali, fatti di imposizioni, sono superati, ideologici”, “I tuoi sono inadeguati anche a crescere un’allevatrice di galline”, “Non è più importante, ai fini della formazione del carattere, guardare insieme un bel tramonto sul mare?”, “Lo dicevano anche in Grecia, svegliandosi dalla pennichella”), finché un giorno la bambina ha manifestato il desiderio ostinato di andare al doposcuola. “Sei sicura? Vuoi restare otto ore a scuola?”, “Sono sicura, lo fanno tutti, poi così quando vado a casa posso giocare e basta”, “Ma non ti stancherai?”, “Dai mamma, non sono più una bambina”. La consultazione fra adulti, in casa, è stata fintissima. Il giorno dopo la non più bambina era già regolarmente iscritta al doposcuola, con due merende e tanti baci. A mai più, esercizi del libro “Nel giardino scopro”! Da quel momento, chi sembrava pronto a chiedere il divorzio per negligenza nell’esecuzione delle sottrazioni a due cifre non ha mai più controllato i quaderni, e io saluto allegra la maestra, guardandola negli occhi (“Hai visto come ti ho fregato, eh? Non te l’aspettavi, cara”). Verranno poi i giorni delle angosce per i compiti in classe, anche se le versioni di greco saranno estinte, sostituite da business plan di rilancio per aziende in crisi, e sarà tutto totalmente nuovo ma ricorderà lo stesso a noi obsoleti come eravamo quando eravamo giovani e in attesa di interrogazione. Sarà perfino bello, ed è molto bello, adesso, vederli uscire da scuola con gli occhi accesi di mondo, le mani scarabocchiate, il broncio per un’ingiustizia percepita, una domanda che non può aspettare nemmeno un secondo e già tanti segreti che non ci racconteranno mai. I compiti a casa sono la parte più piccola di un’avventura gigantesca che è già cominciata e richiederà idee guizzanti e pensieri coraggiosi. Le grandi imprese toccherebbero a noi, ma guardandoci intorno sembra proprio che stiamo aspettando loro, salteremo un giro. E la responsabilità vicaria del doposcuola per il momento ci appaga. “Guarda che non sempre riesce a finire i compiti a scuola, la sera bisogna controllare”, “Non essere ossessiva, dài, ti verso qualcosa da bere”.