Sergio Bocconi, Corriere della Sera 18/04/2012, 18 aprile 2012
IL LUNGO TRAMONTO DELL’IMPERO TRA GLI «AFFARII DI FAMIGLIA»
La richiesta di fallimento della Procura per la holding non quotata Sinergia è forse l’ultimo atto del tramonto dell’impero immobiliare, finanziario e assicurativo di Salvatore Ligresti. Un tramonto accelerato dalla crisi generale, ma fondamentalmente risultato di una gestione degli affari rimasta privata, all’insegna delle «operazioni fra parti correlate», cioè fra la famiglia e le società quotate, Fonsai in prima fila, trattate troppo spesso come un bancomat personale.
Fino a un paio di anni fa si diceva che l’Ingegnere non avrebbe mai venduto i suoi «gioielli». E invece lui che, partito da Paternò, ha costruito la sua scalata al potere e alla finanza cominciando dal mattone nella Milano del boom, in pochi mesi ha dato l’addio a Citylife, con il progetto delle tre super-torri e gli archistar, e a Impregilo, impero di cantieri per grandi opere in Italia e all’estero. E ora si appresta a cedere Fondiaria Sai, la cassaforte in parte svuotata ma dove sono raccolte fra l’altro le partecipazioni sparse, da Mediobanca a Rcs MediaGroup, da Generali a Pirelli che un tempo gli hanno portato in dote un soprannome che per lui era quasi un titolo onorifico: Mister 5%, crocevia della finanza e di quelli che un tempo erano definiti i suoi salotti, i patti di sindacato. Ligresti «compratutto» ne era diventato un partecipante attivo, coltivando relazioni senza perdere la proverbiale riservatezza. Il legame però al quale teneva di più era quello con Enrico Cuccia: e grazie ai suoi legami con Bettino Craxi, Ligresti ha contribuito al via libera politico alla privatizzazione di Mediobanca.
Ma sono tempi e fasti ormai lontani e dimenticati. Oggi è tempo di dieta forzata e dismissioni. Si arriva così al piano industriale con Unipol che prevede un’aggregazione di quattro società, la holding Premafin e le controllate Fonsai e Milano con la Unipol assicurazioni, e che in questi giorni (domani proprio con Fondiaria Sai) ha passaggi fondamentali nei consigli che devono stabilire i concambi e quindi il controllo del secondo polo delle polizze da 20 miliardi di premi che rappresenta l’obiettivo. Un percorso complesso con un iter che dovrebbe concludersi in settembre con le assemblee di fusione. E che in teoria può non solo non essere ostacolato dall’iniziativa della magistratura, che riguarda i «piani alti», familiari e non quotati del gruppo: appare bensì possibile che il passaggio di proprietà, con l’uscita o il vasto ridimensionamento dei Ligresti, possa al contrario ricevere un «spinta», un’accelerazione. E ai fuochi d’artificio di ieri in Borsa, con Fonsai che ha guadagnato quasi il 38,9% e Unipol il 23,7%, possono aver contribuito anche queste attese.
Al piano di integrazione con Unipol (al quale vorrebbe sostituirsi il progetto «stand alone» di Palladio e Sator) si è arrivati dopo che la situazione della compagnia è precipitata con perdite in due anni pari a 2 miliardi e il margine di solvibilità crollato al 75%, quando la soglia minima di vigilanza è pari al 100%. In precedenza, un accordo a fine 2010 con i francesi di Groupama era tramontato perché la Consob non aveva concesso l’esenzione dall’Opa, e l’aumento di capitale che nell’estate 2011 aveva portato nel capitale di Fonsai Unicredit con il 6,6% non si era rivelato sufficiente a garantire al gruppo un equilibrio stabile.
Un tracollo in parte atteso. E che in realtà è cominciato nel momento stesso in cui Salvatore Ligresti ha coronato il sogno del «grande salto». L’immobiliarista, che durante Tangentopoli ha trascorso 112 giorni nel carcere di San Vittore, aveva affiancato alla passione iniziale anche le polizze acquisendo da Raffaele Ursini, uno dei suoi maestri con Michelangelo Virgillito, un pacchetto della torinese Sai, in precedenza degli Agnelli. Dopo il tracollo di Ursini, Ligresti ha rilevato il controllo della compagnia che negli anni ha firmato accordi (come quello con il gruppo Gan), acquisito partecipazioni (in Swiss Life) e altre società assicurative (come la Sasa). Infine, nel luglio 2001, la «grande operazione»: la fiorentina Fondiaria, controllata da Montedison in quel momento sotto assedio da parte di Fiat ed Edf, viene venduta da Mediobanca a Ligresti, che successivamente, in modo in parte rocambolesco, la fonde con la Sai. E quando nel gennaio 2003 il gruppo approda in Borsa vale 1,6 miliardi, con il titolo a 12 euro. A fine 2006 la compagnia capitalizza 5,5 miliardi. Oggi circa 300 milioni.
Un declino vorticoso, che solo in parte è spiegabile con la crisi della finanza che ha ridimensionato il valore di banche e assicurazioni. La caduta, avvenuta sotto gli occhi delle authority, la Consob di Lamberto Cardia e l’Isvap di Giancarlo Giannini, è dovuta in modo prioritario a una gestione a dir poco familiare della compagnia: «rischio» rispetto al quale Ligresti era stato messo in guardia proprio da Vincenzo Maranghi, il delfino di Cuccia, proprio nel momento del passaggio di proprietà: «La gestione del gruppo assicurativo non può più avere un taglio "familiare"», aveva scritto il top manager di Mediobanca. Rimasto evidentemente inascoltato. I Ligresti hanno invece costruito intorno a Fonsai un circuito di operazioni che hanno al centro immobili e terreni di famiglia: passaggi di proprietà dalle società di Salvatore e figli di edifici, aree, catene alberghiere alla compagnia che poi assegna lavori e consulenze a società riconducibili sempre ai Ligresti. Affari «in proprio» che fra il 2008 e il 2011 hanno sfiorato i 600 milioni. E che costituiscono la parte più pesante delle «operazioni con parti correlate» che fra il 2005 e il 2011 hanno comportato oneri per Fonsai pari a 693 milioni e fruttato proventi per 286, con un bilancio a favore dei Ligresti per oltre 400 milioni. Una gestione di «taglio familiare» che non può più proseguire oltre. Anche alla luce delle iniziative della magistratura i destini dei Ligresti e del gruppo appaiono separarsi. Inevitabilmente.
Sergio Bocconi