Giorgio La Malfa, Il Sole 24 Ore 17/4/2012, 17 aprile 2012
LA DOMANDA VA SPINTA CON FORZA
Il Governo si prepara a una correzione al ribasso delle previsioni sull’andamento del Prodotto interno lordo nel 2012. Rispetto alle valutazioni del dicembre scorso, che prevedevano, per quest’anno, una flessione dello 0,4%, le nuove stime dovrebbero indicare una caduta del reddito dell’1,4-1,5% per il 2012 seguita da una sostanziale stagnazione nel 2013. Le nuove valutazioni sono in linea con le previsioni per l’Italia della Commissione Europea, mentre il Fondo monetario internazionale ipotizza per noi una flessione che potrebbe superare il 2%.
L’Italia è in piena recessione. Tradotte in chiaro, queste cifre indicano che nei prossimi mesi aumenteranno drammaticamente le crisi aziendali e la disoccupazione con un impatto diretto sulle condizioni di vita di milioni di persone. La situazione è tale da richiedere misure di politica economica capaci di incidere da subito sull’evoluzione dell’economia italiana. È questo il problema di cui dovranno discutere stasera il presidente del Consiglio e i capi della maggioranza parlamentare che lo sostiene.
Nessuno illuda gli italiani che una risposta ai nostri problemi possa venire dall’Europa. Gli eurobond, i project bond, la riforma del bilancio comunitario e così via, ai quali fanno riferimento in molti, sono proposte giuste, ma che richiederanno anni per concretizzarsi. Prima che si metta in moto un euro attraverso questi progetti bisognerà formulare precisamente queste proposte, superare le resistenze di quanti, in Europa, sono contrari, individuare l’ammontare delle risorse da impegnare, mettere a punto le procedure per distribuire fra i vari Paesi le cifre disponibili e così via. Ci vorrà tempo. È evidente che sono idee da portare avanti con determinazione. Ma non sono la risposta ai problemi che l’Italia deve affrontare ora e subito. Fanno parte di un’altra Agenda rispetto a quella che devono mettere a punto stasera i capi della maggioranza e il presidente Monti.
Di fronte ai dati che sono sotto i nostri occhi, se non si vuole accettare come inevitabile una tempesta che distruggerà centinaia di migliaia di posti di lavoro per poi consatatare che gli impegni assunti con l’Europa sul rientro dal deficit sono divenuti irrealizzabili e costringono a nuovi salassi, bisogna dare ora e subito una spinta forte alla ripresa della domanda. Le cifre da impegnare debbono essere sufficientemente significative da incidere sulle aspettative negative sul futuro che spingono le famiglie e le imprese - come ha mostrato l’Istat - a risparmiare di più e quindi ad aggravare ulteriormente la caduta della domanda.
Per dare questa spinta bisogna immettere potere di acquisto nell’economia attraverso la finanza pubblica. Non ci sono alternative. Non farlo significa accettare passivamente l’evoluzione spontanea del sistema che oggi indica una situazione gravissima.
Quanto alla dimensione dell’intervento, essa va calibrata sulle dimensioni della crisi: poiché il peggioramento delle previsioni di andamento del reddito nazionale è dell’ordine dell’1%, bisogna ipotizzare un intervento della finanza pubblica almeno dello stesso ordine: 15mila-16mila milioni di euro - da immettere nell’economia italiana nei prossimi 12 mesi. Anche se questo afflusso avesse un effetto moltiplicativo molto basso, esso dovrebbe comunque essere sufficiente a fare risalire il reddito di altrettanto.
Per definire in concreto questa operazione bisogna indicare da un lato dove prendere le risorse e, dall’altro, come immetterle nel sistema. Sul primo punto, conviene lasciare da parte la cosiddetta spending review. Per un intervento efficace sul piano macroeconomico non serve togliere i soldi da una parte e metterli da un’altra: l’effetto netto è quasi nullo. È meglio utilizzare il gettito della spending review e della lotta all’evasione fiscale per compensare la rinunzia agli aumenti dell’Iva che avrebbero effetti particolarmente negativi.
La ripresa può essere messa in moto soltanto dall’immissione nell’economia di soldi nuovi e aggiuntivi: un vero e proprio disavanzo una tantum ampiamente giustificato, rispetto agli impegni di realizzare nel 2013 il pareggio del bilancio, dalle condizioni straordinarie di recessione nelle quali si trova l’Italia. Vorrei vedere un’Europa che dicesse no a un deficit una tantum dell’1% del Pil deciso da un Governo al quale si riconosce unanimemente di avere messo, con il decreto di dicembre, in equilibrio i conti pubblici dell’Italia.
Se invece si vuole evitare anche il più modesto incremento del debito pubblico, il Governo potrebbe impegnarsi a una cessione mirata di una piccola parte del patrimonio pubblico. In questo senso, Pro bono pacis Europae, il Governo potrebbe mettere sul mercato beni pubblici dai quali ricavare i 15-16mila milioni di euro di cui abbiamo bisogno.
Quanto alle destinazioni, ritengo si debba riflettere su 3 possibilità: una specie di legge Tremonti che dia vantaggi fiscali alle imprese che avviino nuovi investimenti nei prossimi 12 mesi; uno sgravio contributivo ulteriore alle imprese che assumano nuovi dipendenti oppure un sostegno strordinario a fasce di reddito basse che hanno forti propensioni al consumo. Naturalmente si tratta solo di accenni. I ministeri dell’Economia e dello Sviluppo, la Banca d’Italia e l’Istat sono pienamente in grado di dare una formulazione precisa a queste indicazioni di carattere generale. Purché sia chiaro che si immette nell’economia italiana nei prossini 12 mesi una domanda aggiuntiva di un ammontare all’incirca pari a un punto di Pil. Essa dovrebbe funzionare come quando, per rimettere in moto una macchina che ha la batteria scarica, si prende l’energia elettrica dall’esterno e si rimette in moto il motore.