Malcom Pagani, Andrea Scanzi, il Fatto Quotidiano 17/4/2012, 17 aprile 2012
PEDRO, IL FANGO E LA RABBIA
Carlo Petrini cercava pace dopo una vita in guerra. Ora l’ha trovata e da morto, non darà più fastidio. Grillo parlante delle cattive coscienze, Petrini faticava ormai anche a parlare. Le flebo, le medicine, le cure della moglie e la valigia piena di referti. Di tumori. L’eredità di un ventennio di pallone e pillole. Aveva 64 anni, la metà dei quali spesi a scontare un passato sbagliato. Carlo aveva giocato in Serie A. Milan, Torino, Roma, Bologna. Incontrato Nereo Rocco, Puliciclone e Sandro Ciotti. Osservato i ritiri picari in cui le ragazze entravano dalla finestra e i tavoli pieni di sostanze da assumere in endovena. Salto sul trapezio, pratica circense senza sconti. Era nato nello stesso paese di Luciano Moggi, Petrini. E da Monticiano era evaso, per cercar fortuna. Qualcuno gliela sventolò in faccia e lui non si fece domande. Firmò con il rischio e pagò. Poi già malato si impegnò a ricordare, a cercare i nessi, a lucidare memorie insozzate e a scrivere libri. Sempre in prima persona, sempre – per citarlo – con “i coglioni” delle proprie opinioni. Proprio lui che, se doveva definirsi, si dava del “presuntuoso” per aver pensato di dominare mentre qualcun altro esercitava il suo dominio. “Pedro” ha scontato ogni colpa in una sorta di perdurante nemesi efferata. Il primo tempo a inciampare – il doping, le combine, i dissesti finanziari – il secondo a collezionare cicatrici. Quasi ostentandole, perché intimamente convinto di meritarle. Sognava un libro finale dedicato al figlio Diego, che non ebbe il coraggio di salutare in punto di morte perché (fuggito in Francia) ad aspettarlo in Italia c’erano gli usurai. Il peccato originale con cui lo crocifisse il Tg1.
LA GRANDE colpa che mai si perdonò. Ha scritto due testi da insegnare nelle scuole, Nel fango del Dio pallone (anche dvd e pièce teatrale) e Il calciatore suicidato (l’opera di cui andava più fiero). Pubblicava con Kaos Edizioni, l’unica disposta a rischiare, anche per l’ultimo libro uscito a dicembre Lucianone da Monticiano. Si era reinventato giornalista perché troppi di quelli veri avevano abiurato. Gli stessi che, per vendicarsi, lo trattavano da mezzo matto che “se n’era fregato pure del figlio”. Mai querelato, sempre condannato dal silenzio omertoso di un ambiente che gliel’aveva giurata. E che ora, probabilmente, un po’ gode. Ha permesso di riaprire il processo sull’omicidio di Denis Bergamini, raccontato verità crude, anticipato disastri perfino banali nella loro ineluttabilità. Voce profonda da divo del cinema, cieco per un glaucoma che non gli aveva oscurato lo sguardo lucido. Profetico. Apocalittico. Mai santo e quindi martire, di se stesso e di un circo carnivoro che tutto tollera tranne i “traditori”. Amante della metafora cruda e della parolaccia greve, che ribadisse concetti scolpiti con l’accetta. Divulgatore teneramente entusiasta, a scuola e teatro, finché ha potuto. Negli ultimi giorni desiderava soltanto qualche telefonata. Da vecchi e assai presunti amici. Un semplice: “Pedro, come stai?”. Ha continuato a desiderare invano. Ora su Carlo e sulla sua memoria non comanda più nessuno. A Lucca c’è silenzio, vento, composto dolore di confine. Pedro era soldato di ventura. È morto da miliziano, combattendo fino all’ultimo. Centravanti nato. Senza patria e senza bandiera. Con le maglie della sua esistenza in naftalina. Inutili effigi del passato, dannazione eterna di ciò che avrebbe potuto essere e invece non fu.