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 2012  aprile 17 Martedì calendario

LA SINDROME DI OSLO

Sono uno scrittore. Chi proclama con orgoglio stentoreo al cospetto del mondo un onore tanto dubbio? Chi s’insuperbisce per così poco? Forse il romanziere misconosciuto, colto da un raptus di solitaria esaltazione nella sua soffitta mal aerata?

Oppure il deejay baciato da smodato successo di vendite mai la fortuna fu dea più bendata - per aver messo su carta la sua chiacchiera radiofonica?
Né l’uno né l’altro. A dichiararsi tale è Anders Behring Breivik, il militante di estrema destra norvegese responsabile delle stragi di Oslo e Utoya costate la vita a 77 ragazze e ragazzi inermi, primaverili, moderatamente fiduciosi nell’avvenire.

«Sono uno scrittore». Breivik lo dichiara davanti al tribunale che da ieri lo processa. Lo fa subito. E’ la prima cosa che dice presentandosi al cospetto del tribunale e al cospetto dell’intero Paese da lui martirizzato. Il procedimento a suo carico viene, infatti, trasmesso in diretta televisiva da monitor a circuito chiuso in altre diciassette procure disseminate in tutta la nazione norvegese, nonché dai media del mondo intero. Con quelle tre parole di auto-identificazione, il delirante assassino dà inizio a un teatro fatto di saluti camerateschi, proclami farseschi, commozioni improvvise, invettive roboanti e annunci apocalittici. Uno show iniziato ieri e lungo, verosimilmente, quanto l’intero processo. Il video del suo ingresso in aula è, infatti, accompagnato da un ronzio insistente fuori campo, quasi un rumore di basso continuo: è il concerto dei motori delle macchine fotografiche che scattano a ciclo continuo.

La reazione più sana di fronte a tutto questo sarebbe probabilmente di ignorarlo. Coglierne per un istante l’aspetto grottesco e poi voltarsi dall’altra parte. Ma non accadrà. Daremo retta, a lungo e a milioni, all’affabulazione demente di questo uomo atroce auto-proclamatosi «scrittore». E, così facendo, gli daremo in parte ragione. La nostra spasmodica attenzione riconoscerà che il suo orribile atto criminale proviene da e ritorna a un immaginario finzionalizzato. E’ figlio cioè di un mondo scivolato senza accorgersene in una zona di confusione tra sogni, miti e finzioni narrative, un mondo che comincia con il delirio paranoide di un potenziale assassino e finisce con le suggestioni esercitate sulle masse di telespettatori globali dalle sue fanfaronate, un mondo in cui la progressiva sfocatura dei confini tra realtà e finzione presenta a un capo del processo di comunicazione un caso di indistinzione psicotica e all’altro un caso speculare di indistinzione mediatica. Nel mezzo, la realtà è solo un pretesto, un labile punto d’appoggio per far girare la ruota impazzita. Anche quando la realtà sia la morte atroce di 77 giovani innocenti.

Insomma, standolo a sentire, stiamo riconoscendo a Breivik la facoltà di influenzare il nostro immaginario collettivo, prerogativa di alcuni, pochi, grandi scrittori. Inoltre, la nostra spasmodica attenzione, se non arriverà ad attribuire a Breivik il rango di autore in prima persona di narrazioni influenti, sicuramente ne farà un oggetto privilegiato di esse: infiniti racconti lo eleveranno al rango di propria materia d’elezione. Racconteremo di lui, a lungo e diffusamente, e ci staremo ad ascoltare. Così il criminale demoniaco parlerà per tramite nostro, ventriloqui del mostro.

E’ una storia che viene da lontano. Nella sua versione attuale comincia probabilmente nel luglio del 1970 in California, quando Charles Manson si presenta con una X incisa sulla fronte alla prima delle moltissime udienze preliminari del lunghissimo processo show intentato a lui e alla sua banda per il massacro di Cielo Drive. Anche prima di allora l’interesse per i processi ai criminali efferati era stata molto forte ma da quel momento in avanti il pluriomicida diventa una figura centrale di una celebrity culture uscita di senno, risucchiata nella perdita di quello stesso principio di realtà che è sempre stata all’origine dei crimini medesimi. Ben presto anche il pluriomicida con motivazioni politiche - il nostro terrorista quotidiano entrerà in questo girone infernale. Di lì a poco, primo fra tutti sarà Ilich Ramirez Sanchez, meglio noto come Carlos «Lo sciacallo». Il primo di una lunga serie, purtroppo.

Facile, oramai, per noi individuare le dinamiche di questi fenomeni. Difficile, invece, trovarvi un qualsiasi senso. C’è, però, sicuramente il fatto inoppugnabile di una psiche occidentale rimasta vittima di una colossale Sindrome di Stoccolma: ci invaghiamo dei nostri carnefici. Pendiamo dalle loro labbra in attesa di parole rivelatrici. Contempliamo, sgomenti e sedotti, chi ci conficca nella posizione della vittima.

Non riesco davvero a spiegarmi perché lo si faccia. So, però, che l’alternativa a questo colossale autoinganno è una verità ben più dura da sopportare. La verità è che questi assassini diabolici, questi grandi uccisori titanici non hanno proprio niente da dire, nessuna storia da raccontare.

«L’ultima volta che ho visto quest’uomo di persona stava sparando a un mio amico». Così ha commentato l’ingresso teatrale in aula di Breivik un ragazzo scampato alla strage. Dovremmo tutti attenerci alla tragica, lapidaria saggezza di questo commento. La storia di quella ignobile canaglia comincia e finisce lì, in quella breve voragine di nulla.