LUCA RICOLFI, La Stampa 17/4/2012, 17 aprile 2012
SALVARE IL PAESE NON BASTA
Il governo si appresta, per l’ennesima volta, a cercare di mettere insieme un pacchetto di «misure per la crescita». Il momento è molto difficile perché i mercati, dopo aver concesso fiducia all’Italia per quasi tre mesi (da gennaio fin oltre metà marzo), da qualche settimana sembrano non fidarsi più di noi.
Il segnale più negativo non viene dallo spread, che è tornato a salire ma in realtà risente sempre, e pesantemente, della irresolutezza delle autorità europee, bensì dallo «spread dello spread», cioè dalla differenza fra quanto i mercati pretendono dall’Italia e quanto pretendono dai Paesi a noi più comparabili come la Spagna, il Belgio, la Francia, Paesi cioè che non sono né formiche come la Germania né cicale come la Grecia e il Portogallo.
Ebbene, lo spread dello spread era sceso a 105 nella settimana centrale di marzo, ma da allora è risalito inesorabilmente settimana dopo settimana: 109, 121, 131, fino a 144, il valore medio della settimana scorsa. Perché? Perché per quasi tre mesi lo spread è migliorato, e ora peggiora di settimana in settimana?
Qui si entra, purtroppo, sul terreno delle opinioni, perché nessuno dispone di un modello della mente dei mercati sufficientemente affidabile. Qualche cosa, tuttavia, si sa del funzionamento dei mercati nei momenti di tensione. Le bestie nere dei mercati sono tre: il deficit dei conti dello Stato, il debito pubblico detenuto da investitori stranieri, le cattive prospettive di crescita. Se guardiamo a questi tre parametri, pare difficile non ipotizzare che quello che, negli ultimi tempi, ha scosso la mente dei mercati non è la tenuta dei conti pubblici - messi in sicurezza da un diluvio di tasse - ma il costante deterioramento delle nostre prospettive di crescita, che ormai si stanno cristallizzando intorno a un drammatico -2%, e sono peggiorate di più di quelle delle altre economie avanzate. Un dato che, se confermato, costringerà il governo a un nuovo giro di vite, senza il quale l’obiettivo del pareggio di bilancio nel 2013 non potrebbe essere raggiunto.
La crescita, dunque, è il nostro problema numero uno. Ma come vede il problema questo governo? Qual è la sua idea per tirarci fuori dal pantano?
La mia impressione, basata sugli atti fin qui compiuti, è che il governo abbia una visione del problema della crescita non molto dissimile da quella dei governi che lo hanno preceduto. Certo Monti è più credibile dei suoi predecessori di destra e di sinistra, e ha messo su una squadra che si è guadagnata - e merita pienamente - il rispetto del Paese. E tuttavia la «cultura della crescita» che questo governo esprime a me pare, mi si perdoni la crudezza, terribilmente vecchia e inadeguata alla drammaticità del momento. Perché vecchia? Vecchia, innanzitutto, perché persevera sul sentiero, battuto fin qui da tutti i governi di destra e di sinistra, della prima e della seconda Repubblica, di affrontare i problemi di bilancio con maggiori tasse anziché con minori spese. Non è questo il luogo per scendere in dettagli tecnico-contabili, ma non si può non ricordare che le varie manovre con cui nel 2011 siamo stati deliziati prima da Tremonti, poi da Berlusconi e infine da Monti, hanno avuto un contenuto di tasse, e quindi una spinta recessiva, inesorabilmente crescente (la manovra di Tremonti era composta per meno del 50% di nuove tasse, quella di Monti lo era per quasi il 90%). Vecchia, la visione di questo governo, anche perché la teoria della crescita su cui si basa, fatta di liberalizzazioni, riforme a costo zero, segnali ai mercati, è nata ed è cresciuta soprattutto per promuovere il decollo dei Paesi in via di sviluppo, ma ha molto meno da dire alle economie dei Paesi avanzati. Da questo punto di vista non è un caso che tanta attenzione sia stata dedicata a un tema ideologico come l’articolo 18, senza alcuna sensibilità per il problema - ben più rilevante al fine di promuovere crescita e occupazione - di alleggerire i costi dei produttori di ricchezza. Nella cultura di questo governo continua ad albergare la credenza che il problema centrale delle imprese sia poter licenziare, mentre la realtà è che il loro problema numero uno è un semplice, brutale, concretissimo problema di costi: tasse, contributi sociali, prezzi dell’energia, ritardi nei pagamenti della pubblica amministrazione.
Ma è vecchia, la cultura di questo governo, anche per la mentalità con cui affronta chi osa non allinearsi al clima di venerazione e gratitudine da cui è circondato. E’ vero, non ci sono alternative al governo Monti, se cadesse sarebbe un disastro per l’Italia, i mercati ci farebbero a fettine. E tuttavia questa consapevolezza non rende per ciò stesso ragionevole qualsiasi cosa questo governo decida. C’è un errore logico, mi pare. Se la mia caduta è un evento così catastrofico da provocare un disastro, questo non vuol dire che tutto quel che faccio sia giusto, o volto al supremo interesse del Paese.
Oggi, ve lo confesso, per me l’interesse del Paese è rappresentato di più dalle innumerevoli persone che tentano disperatamente di resistere sul mercato, senza arrivare al passo fatale di ritirarsi o chiudere le loro attività produttive, che non da un governo che non si cura di loro e preferisce - continua a preferire - l’ennesimo aumento della pressione fiscale piuttosto che toccare il totem della spesa pubblica. Perché, è vero, Mario Monti è stato chiamato per «salvare il Paese». Ma l’alternativa che ha di fronte non è quella che, comprensibilmente, preferiscono immaginare i nostri governanti: o noi o il disastro. No, accanto a quella alternativa ce n’è un’altra: l’alternativa fra salvare davvero il Paese, o semplicemente ritardare il momento del disastro. Oggi il rischio è che questo governo si senta così necessario, così migliore dei governi che l’hanno preceduto, così privo di alternative, da non capire che il fatto di non avere alternative non rende per ciò stesso buone le sue politiche. Che tali politiche siano buone o no lo vedremo alla fine, quando si saprà se il piccolo, prudentissimo cabotaggio di questi mesi sarà stato sufficiente a salvarci da un destino come quello della Grecia. Sono il primo a sperare che basti, ma - fin qui - non vedo solidi argomenti per crederlo.